La sera, la serra – tip. Mazzoli 2004

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LA SERA, LA SERRA
Alessandro Canzian
 
 
Forse è tempo di giungere al faro,
struggere del suo baleno
(F. Benzoni)
 
 
 
LETTERE
 
 
Ti penso, ti penso sempre, ti penso
anche nel non-pensiero,
che pensarti è come già sopravviverti.
 
 
 
 
 
Fu la mia grande solitudine.
Fu lo sguardo, troppo dolce sguardo
di chi sa che sta sbagliando.
Fu la bocca d’un sorriso, resina
non scesa, estate già in declino.
non scesa, estate già in declino.
 
 
 
 
 
Ma qualcosa resiste e quasi le chiedo
d’esistere, per legarmi più a te.
 
 
 
 
 
VERSI DIFFICILI
 
 
Di vuoto ubriaco al tuo segreto sorriso
amaro, non ricordo nulla.
Non ricordo la pacata morte del vivere.
Il caffè nero ti smemora, e dilegua, nera
angustia d’altri voli.
 
Ma tu non sai quei voli.
Tu non sai la farfalla ch’era entrata
soffocata, corvo oramai smorto.
Tu non sai il rombo d’ali che ci scava
-tutto, tutto si ripete nel tempo-
cupo, nel cupo segnale del tempo
-e nel rombo s’ingolfa, stasi-.
 
Perché non è amare, né vivere,
il leucemico gatto assetato
d’assonanti dolcezze, oblique ferocie.
 
 
 
 
 
Io non so il tuo millenario amore.
Tutto si perde, tutto si trasforma
in niente, qui.
Tu non sai la vita come sia densa, opaca
ombra di te, senza te.
 
 
 
 
 
E cerco, e cerco, e ti cerco
nell’antenna d’un insetto,
nella quasi follia
d’un granello di pane,
nella parola
che nell’eco ancora odora di te.
 
 
 
 
 
Tu m’hai spezzato.
In echi di luce che recide
inutili memorie, parole
troppo gravi.
E ciò che resta è nebbia.
 
 
 
 
 
Tu, ma chi sei tu?
Al tramonto non so l’alba,
e la notte scava già le scese
eterne dell’eterno, magma
ch’è nulla nel nulla che noi siamo.
 
 
 
 
 
È il mio vuoto, il mio niente
la nuvola sparsa, la rondine bassa,
il fiore di pioggia
che ti nomina, ben sapendo
il tuo cielo essere il mio cielo.
 
 
 
 
 
Non ti ride l’estate, la troppo cupa estate
delle alluvioni. E solo rimane
un odore tuo come d’acqua ai vetri.
Perché è nel perdersi il fine d’ogni cosa
se perdere si può per troppo amare.
 
 
 
 
 
M’abbraccia una tua dolcezza
come se tu più fossi
nel segno d’una tua presenza.
Ma è certo assurdo il tempo
e questo mio dirti tra le righe.
 
 
 
 
 
È l’assurdo motivo di vivere.
È il suo cieco disfarsi nelle sere
d’un raggio di cera,
nella rete d’uno sguardo
che ti revoca ricordo,
nel portone, quasi di vita, che non s’apre.
 
 
 
 
 
Questa notte di ruote non passa.
Criceti rodono le gabbie
sature di tempo, di niente.
Ma è così inutile pensarti
alla deriva del pensiero.
 
 
 
 
 
E attendo d’inutile attesa.
Che il portone si schiuda
alla tua bocca, all’alluvione
tua d’esistere –può essere
questo il tramite divino?-
Ma la condanna del vivere è il vivere.
 
 
 
 
 
LA SERA, LA SERRA
 
 
Dov’è la sera? La serra?
 
 
 
 
 
Ai tuoi occhi vissuti senza tempo,
alle tue gambe vissute senza ombra
alcuna, sulla terra
delle tue dolcezze, alla tua bocca, bruciata
al gelo del tempo, che lascia
ricordi sulle mani senza odore.
 
 
 
 
 
E basta così poco a ricrearti.
Una rosa che ti somiglia,
che si querela inedia.
E sei alba che non smemora,
dolce quanto pesa il vivere.
 
 
 
 
 
In te ho amato il nulla delle cose.
In te il bianco velarsi d’una donna
in pioggia, schiusa, ai tuoi scalzi
piedini sciolti.
Ma il nulla delle cose è un tutto
che il tempo schiuma.
 
 
 
 
 
Forse altrove sei caso d’uno sguardo
tanto caro alla banchisa
di questo viverci, di niente.
 
 
 
 
 
E intesso tuo figlio con le rondini.
 
 
 
 
 
Dicono sia possibile, lo sai, amare…
 
 
Dicono sia possibile, lo sai, amare
un’ombra, ombre noi stessi,
dicono non sia maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
a la miseria,
dicono anche tu sia stupenda.
 
 
 
 
 
E ripenso a quello sguardo
di neve, e cenere, come un gatto
malato che arranca
su neve gravida al sole.
E che in vita s’aggruma, densa
condensa ai vetri degli occhi.
 
 
 
 
 
È l’inquietudine di calcinacci
guadati -radia il tempo
d’un’auto-, è il graffio
d’una breccia che raccoglie
capelli nella sera.
 
 
 

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