Riprendo qui l’appendice che avevo tentato in Aftermath con i Four love poems.
Forse sono solo esercizi, passati attraverso l’Inno all’amore di San Paolo, ma farò confluire qui tutti gli scritti che in questi giorni mi vengono, mattina dopo mattina, e che sempre più mi appaiono un’espiazione.
L’immagine è un particolare di un bronzo su una tomba ad Avellino. La raffigurazione completa narra del tragico amore tra Lia Ravizza e Raffaello Pagliuca.
Love poems
Ritorna spesso e prendimi, la notte,
poichè le labbra e la pelle ricordano
Kostantin Kavafis
Questi sono giorni oscuri,
giorni di erba nera, sono giorni
di pazienza senza aria
e di stufe che non scaldano.
Sono giorni disattesi
tra secoli e capelli. Sono giorni
che non ricordano il tuo bene.
Mi piace la parola minimale.
Mi ricorda la tua schiena, le tue
spalle da scoprire e il tuo
sesso, dallo svelamento chiaro
eppure con tristezza. Credo
sia questo il senso dei ricordi.
Un minimale tra gli assenti, persi.
La dolcezza e il passo, l’odore.
Se mi chiedessero cosa provano
le mie mani alla tua assenza
direbbero esse stesse che è la pelle
ciò che più mi manca, il fiato
dei capelli, l’orrore degli affetti.
La colpa non basta a cancellare
come dovrebbe la tua mancanza.
Ed ora che ci distruggiamo a
vicenda non resta che la prosa
d’una mattinata di novembre
dove accogliere un gatto trovatello
come fossero i tuoi capelli,
dargli da mangiare, immaginare
la luna dei tuoi occhi nei suoi
occhi, nei suoi baffi, nei tuoi
passi, che non mi hanno accanto.
Un amore non finisce mai
del tutto. Ne resta una metà
nel cuore d’ognuno e metà
torna al freddo da dov’era
venuto – certo ora mi dirai
che tre metà non fanno un
pieno, ma nemmeno due
sono bastate a trattenerti.
Guardo dalla finestra eppure
non ne colgo il senso. Le auto
continuano a passare, i miei
vicini continuano a parlare,
le donnicciuole a passare
come nessuno sapesse che
t’ho persa. Eppure ogni cosa
ora mi è un abbraccio
che non ti ho dato.
Eppure così tu mi manchi.
Come nemmeno sai, il fianco
nudo di mattina, caldo
al sonno, la pelle scomparsa
alle lenzuola ed una pioggia
che fa tutta la giornata. Così
mi mancano le tue dita
dei piedi, il contarle che
non ne manchi una che sia
una disgrazia trovarti nuda ma
ogni mattina diversa. E
non riconoscerti al risveglio.
È curioso quanto la distanza
acuisca il sentimento. Ne
amplifica gli odori, i sapori,
i ricordi della pelle e dei
vestiti, la paura delle attese.
Tutto è più vivido di quando
era reale. Credo sia per questo
che gli uccelli volano così
alti, innamorandosi del mondo.
Vorrei essere felice, veramente.
Felice come te quando un po’ brilla
ridevi della gradazione d’un
limoncello veneziano, sexy
dicevi, poi fotografandoti le gambe.
I tempi non ci sono, lo so, tutto
mi è insieme in questi giorni di
desiderio d’un abbraccio, e pace.
La felicità è un tutto insieme, in fondo.
Questa vita è una via Mamaluch
dove da bambino passavo
per fare la spesa alla Standa.
È il suo muro lungo e chiaro
fatto di lucertole e telecamere
che non so nemmeno accese.
Ci passo anche oggi, senza te.
E non faccio nemmeno la spesa.
Dicono che un poeta non dovrebbe
mai scrivere d’amore. Non oggi
almeno, che piove, che la crisi
ci uccide nelle strade. È chiaro
che la mia non è poesia d’amore.
È solo la mia mancanza
ogni giorno d’una tua parte.
Oggi mi mancano le tue
ginocchia, ieri i gomiti, l’altro
ieri la tua spalla destra
e ancora prima quella sinistra.
Domani non so quale malattia
o sorriso di te mi mancherà.
O quale passo, quale neo, o
quale modo di lisciare i capelli
per far scendere la pioggia. Oggi
mi mancano le tue ginocchia.
Curo la casa come tu fossi
con me, spazzo la polvere,
ti chiedo d’aiutarmi con lo
straccio, ma tu non rispondi.
E prendo anche il tuo sedere
tutto tra le mani ma tu
non dici nulla, non dici
“dobbiamo lavare a terra, dai”.
Curo tutto questo da solo.
Mi vergogno d’essermi svegliato
stamattina, perchè così
ti ho pensata, ti ho pensata
come quando si accende la luce
prima del caffè, come quando
si va a fare la pipì dieci minuti
dopo averti lasciata nel letto
– anche se tu non ci sei – come
quando cammino scalzo per casa
cercando qualche resto di te.
In un altro tempo avremmo organizzato
una piccola vacanza, tu la pizza
per il viaggio, io la benzina
da ricordarsi di metterla, tu la gonna
nera che sai mi piace, io
i tuoi tacchi, la collana che t’ho
regalato per amore, tu i guanti
che nemmeno hai perchè un altro
tempo è un altro tempo, un altro luogo.
Perderti è stata una mia colpa.
Eppure ora mi chiedono le tue
poesie, qualche foto, magari
delle copertine. S’immagina
dovrebbero esserci i tuoi occhi
nelle foto, le tue gambe
in quelle un po’ più spinte o
le tue mani, tanto fa lo stesso.
A me basterebbe la tua saliva.
Ancora mi dice la tua sera
cose che tu non sai. È una
mitologia questa sera,
il gatto che salta alla finestra,
il vento che romba da lontano,
qualche tuono. Ascolto
gli Eagles alla radio e anche
loro non esistono ormai più,
come noi, come il chiaro
tramontato il giorno, come
la luna quando è spenta
eppure io la vedo lo stesso.
Fossi qui ti scriverei sulla pelle
versi inadeguati al tuo calore,
al tuo colore, alla nebbia del mio
male, che tu non ascolti,
alla grandine del bene che ti voglio
anche quando non siedi sul mio
divano. Ti sento ancora, orma
su quel divano, e ti alzi e fai
un caffè a piedi scalzi e ti guardo
come da un foglio appannato
si guardano scritte incomprensibili.
Fossi qui misurerei i tuoi capelli
con la misura del mio vuoto,
con le tue piccole unghie soffocate
dalla pioggia, dall’ombrello, dalla
mano che ora stringerai, fossi
qui ti stringerei io forte a una
dolcezza claudicante, ti farei io
il caffè, a piedi scalzi, poi un
dolcetto che non vuoi, la pioggia,
l’ombrello che ci serve.
Fossi qui fotograferei anche
l’odore che tu mi porti, che dev’essere
unico altrimenti non esisti,
come una crepa primordiale
dalla quale passo per non trovarmi.
Fossi qui raccoglierei il tuo odore in un
giorno di nuvole capricciose, dove
anche i gatti riposano e tu, tu
resti stesa nel salotto, tolto
il reggiseno che fa male, ai piedi
la coperta che protegge dalla vita
quotidiana, e assoluta.
Fossi qui non ci sarei io, né
la mitologia di noi due perduti
in un’intonaco strappato, senza
Roma, senza Lecce, né Trieste
né Venezia, che tutti i luoghi
sono te, anche se tu non sei più qui.
E nemmeno io ci sono più.


È di una bellezza passare da qui chè non se ne esce!
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Grazie mille
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molto belle Alessandro, vorrei pubblicarne alcune, mi dai una tua email?
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canzianalessandro@virgilio.it
Comunque faccia pure – basta che indica il nome dell’autore ed eventualmente (se questo non dovesse essere fuori luogo) la provenienza (il blog).
La ringrazio moltissimo
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Anche qui, grazie agli amici della Rivista:
http://versanteripido.wordpress.com/2013/12/01/love-poems-di-alessandro-canzian/
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Segnalo anche le poesie di Guido Cupani, sempre nella medesima rivista:
http://versanteripido.wordpress.com/2013/12/01/lamour-nest-pas-fou-di-guido-cupani/
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la solita solfa invecchia male…al massimo rispetto per la storia personale dell’autore devo però accompagnare un solenne disprezzo poetico per la sua scarsa considerazione per la metrica e la tecnica. certi finali di verso, come ”quale neo, o”, oppure ”in questi giorni di”, mi lasciano davvero perplesso. posso capire la voglia di sperimentare, il desiderio di tentare (caratteristica dell’uomo e dell’artista soprattutto), ma abbassarsi a nefandezze da canzonetta è da biasimare. la poesia è l’ultima bellezza, quando fatta da chi è capace e da chi può farla al meglio; e come tale, non dovrebbe essere condannata a subire un destino gramo come qui. se questi sono semplici esercizi, va bene, hai il mio appoggio; ma non andrebbero sbandierati come prodotti finiti, ed è quello che hai fatto. riscrivili, ricalibrandoli a fondo, e magari saranno dei buoni versi
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Qui non si sbandiera nulla come esercizio finito, solo si condivide il transeunte. Per il resto tutto è riscrivendo e calibrando, anche se non sono d’accordo su questa stretta attenzione a una metrica che rischia d’essere un pò obsoleta… insomma dopo Raboni almeno
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