La sera è un centimetro di fame,
un portafrutta di ceramica, è una
donna che s’accarezza perchè sola
da troppo tempo, è un libro
o la sua copertina strappata.
Coi carabinieri in casa per un
controllo. La gentilezza delle
pareti bianche, «scusi ma dove
mette i vestiti, è così piccolo
qui», la muffa tra i cappotti
e una tenda che non vede nulla.
Così mi sono visto innamorato
d’alcune parti per il tutto.
I tacchi alti in primis, le calze
vestite sotto a velare
il bacio dei piedi, le gonne
lunghe e strette come gallerie.
A Maniago di notte i cani
ululano alla luna, alle campane
chiare e ferrose, innamorate
del buio delle cime
come i gatti di Dio. Hanno
addirittura illuminato il castello.
«Quanti silenzi puoi contare»
mi disse una ragazza ieri
contandosi le dita. Fosse
così facile sarebbero pochi
tutti i miei silenzi. Ma
siamo continuamente in due.
La notte è il momento più difficile
per sentire una mancanza, l’orrore
degli affetti, il cavo d’un corpo
che è sempre il tuo corpo.
Di notte mancano le strade,
le colline, mancano le soste.
La dolcezza è un freddo di
mattina, una filosofica distanza.
Ma novembre non tollera le attese
se queste significano un
termosifone che non funziona.
È come parlare d’anima che non
esiste, o non se ne ha il sentore.

