Un bel libro resta un bel libro anche se sono passati alcuni anni dalla sua pubblicazione. E chi mi conosce sa bene che non disdegno di riprendere queste vecchie glorie che non dovrebbero essere dimenticate. Favole di Tommaso Di Dio è sicuramente annoverabile tra queste glorie. Un volumetto esile di quattordici poesie edito da Transeuropa nel 2009 con prefazione di Mario Benedetti.
In questo blog ho già portato all’attenzione un’interessantissima nota critica di Tommaso Di Dio a Tersa morte di Benedetti, intelligente, precisa. Allo stesso modo Benedetti su Di Dio sa essere altrettanto preciso ed affilato: Un senso di fragilità e di muta, silente attesa percorre le poesie di Tommaso Di Dio raccolte in questa breve silloge. Nei testi che formano la raccolta si intravede il dipanarsi della vita vissuta dal giovane poeta ed essa è inizialmente introdotta da riferimenti a luoghi e persone che ne hanno formato l’ambiente quotidiano per poi meglio definirsi nel “noi” di un rapporto amoroso privilegiato. Questo è in sintesi il racconto del libro. Ciò che colpisce è come il poeta si ponga rispetto a questo suo contenuto e pare evidente che si tratta di un affacciarsi sbigottito, perturbato sul mondo: un mondo tremante nel tremolio di atti che si compiono “referenzialmente” su una pagina dove il verso trema altrettanto spaesato. Oserei dire che l’esperienza non è qui depositata nel verso centripeto di un testo che spicchi sul bianco della pagina, come accade per un testo compatto, conchiuso, integro; ovvero si ha la sensazione, anche visiva, che il nero della parte scritta si confonda con il bianco vuoto della pagina stessa. Le parole diventano così ombre e non segni marcatamente incisi, e il tutto risulta ammantato di dolorosa fragilità e perturbante incertezza, e attesa di un qualche compimento.
Un libro d’esordio che inizia con un’analisi dei vent’anni presi come un graffio e che passando attraverso i bastardi segni e l’audacia / del piacere, il prendo questo corpo / senza limiti, attraverso la faccia muta come una terra e il paesaggio scavato di strade, questo volto grande arriva all’approdo, tutto momentaneo, di uno scavo, di un rimanga questo di noi / segno muto. Passaggio non privo di ferite, mai di disperazioni nella consapevolezza che è vita: Oggi volevo / sbranare la paura di essere solo due / corpi finiti. Che è cosa viva: ti viene / una grande voglia di una cosa senza nome.
Poesia intellettuale che non disdegna di citare Shakespeare, Celan (in soli quattordici testi), ma non si allontana mai da una concretezza che fa della poesia un registro dell’avvenuto e dell’avvenire. In alcuni tratti sembra quasi di risentire il Ventiquattr’anni mi ricordano le lacrime agli occhi di Dylan Thomas dove le lacrime sono però gli incontri dei corpi, che sono incontri di vite, di labbra mai viste prima.
E resta in chiusa la necessità, tutta indovinata, di procedere a un loro scavano che è immediatamente conseguente al prendi questa cosa / dura che germina sulla mia bocca. La poesia si identifica così con l’esperienza nel rapportarsi alle cose, alle persone, alla vita stessa. E il poeta colui che resta in questo rapporto ma senza macchine che si muovono intorno alla buca. Colui che vede il cancellarsi d’ogni nome per un segno. Un amore.
Inizio ora a pensare quanti anni ho.
I vent’anni presi come un graffio
dentro la casa, la scala va verso l’alto
infinitamente. Qui si partorisce
dalla faccia della gente, tronchi, sassi
come crani, alghe; mentre una montagna
ci sovrasta. A vent’anni lo sguardo è nei chilometri
in alto, dove tutto è sostanza viva
dei boschi. Dormono nella casa, sono tutti silenziosi.
Ma al mattino si disse che
morte non avrà su questo spazio né parola.
Quella volta che hai trattenuto il sorriso
per un tempo lungo, come un colore.
Quella volta che lo hai tenuto nel viso
prima della forma, prima del dolore
che ne sagoma il contorno.
Ci sono i parchi, le stagioni. Oggi sono due giorni
che piove a dirotto. La terra fuori deve essere fradicia
di cielo e ad ogni passo dovresti sentire un rumore.
L’intrusione delle nuvole. La sagoma del sorriso.
Cielo e viso sono sentieri.
E di questa sera possiamo ricordare
un canto rotto per l’altezza e i piedi pesanti
sul pavimento, sopra la testa, sopra tutto. Questa cosa viva
nella pancia da qualche parte nel mondo
una femmina produce l’urlo aperto
a prendere ogni elemento fra cielo e terra.
E poi lo scotch sugli angoli
dei tavoli e tra le braccia
ti viene
una grande voglia di una cosa senza nome.
Il corpo atteso al giudizio
delle ultime labbra. La foce delle nuvole,
l’armistizio sereno del vento dove le mani
stringono la finestra e chiudono per sempre
il fuori dal di dentro. Ripetere questa nebbia
che batte all’impazzata contro i margini
degli abbracci e dei palazzi. Cercare la chiave giusta.
L’accordo di tutto il pianto dei portoni.
Venne, poi, la chiara successione. L’estate,
l’autunno, l’inverno; aspettare la crescita
dei fiori da quel fiato scarno e colori lividi
dei prati macchiati di neve. Ogni seme.
Ogni testa. Nella terra sono gonfi per la gioia
di una strana festa.
Entrare. Nel petto. Nei chilometri.
La faccia muta come una terra. Questo cielo allora
di schiena attaccato durante il sonno
senza tempo, per ore. Fare l’amore senza il minimo sospetto
che vento, carezze, maremoti delle braccia incredibili
fanno l’opera, tengono
aperti i visi degli amanti, aperti al crollo degli anni
tutti gli istanti. Ti prego, tieni a mente tu
il paesaggio scavato di strade, questo volto grande.
Tu puoi estendere
le labbra del viso, fino all’isola
dolce nella pancia. Dove la mano
indifesa come la città,
gli alberi, la sera. Vieni a chiedere vento
per le strade e cadendo migliaia
di millimetri in una foglia. In ogni momento
tu puoi estendere
questa faccia di dosso; le bocche sono contro
nell’atto del bacio.
La stanza ora è piena di vento, la primavera
porta i suoi segni aprendo e dando
senso alle tue mani; ci sono foglie sui rami quante il vento
può contarne addosso, oltre i vestiti. Questa porta è aperta, e poi
amarti nuda, prendere da te
la carne mossa al portento
dei fiori. Credere che questa stanza sia una fra i chilometri
con gli alberi esplosi dentro
la presenza. Nuda tu dici
fa come stare senza esempio. Labbra mai viste prima.
Gli operai fuori di casa mia
scavano. Hanno le tute arancio e sono tanti
intorno alla buca. Di giorno tu
mi dici che mancano i colori, che bisogna fare
ridere la gente. Loro scavano. La buca è grande quanto
possa bastare all’intubazione
dei cavi e dei condotti nella terra. Prendi le cose tu
le metti alle labbra perchè possa
passare una forma di calore. Hanno le macchine, si muovono
intorno alla buca. Prendi questa cosa
dura che germina sulla mia bocca, prendila. Loro
scavano. Apri la bocca tua e la lingua
cancella ogni nome. Rimanga questo di noi
segno muto. Amore. Che scavano.
