I poeti hanno una particolarità che è la loro fortuna e la loro disgrazia. Sanno carpire l’essenziale. Che poi decidano di esprimerlo con la medesima essenzialità o travestendo l’essenziale di superfluo, è tutta un’altra storia. Il poeta per sua natura coglie il minimo comun denominatore delle cose, il fondo, ne è attratto, innamorato. Sia questo minimo comun denominatore o fondo una cosa altissima o una cosa bassissima, il poeta coglie quello, se ne lascia estasiare quanto deprimere. Perchè essere poeti non è solo una capacità espressiva che si lima col tempo. Bisogna nascere poeti. Poi bisogna avere la fortuna di avere una vita che ti regala esperienze e capacità di riflettere su quelle esperienze. Poi ci vuole studio, molto studio, per poter capire ed esprimere la vita che si è vissuta. Solo così quella vita, che è la vera poesia, avrà un suo bilancio comunicabile, degno d’essere ricordato.
Ma non è una fortuna essere poeti. Non è bello. Chi punta tanto in alto cade anche tanto in basso, ed è tragicamente vero. Il poeta non è che un uomo che ha lo sguardo talmente fisso al cielo per cercare Dio (inteso come idea, come obiettivo ideale, non come una religione effettiva) che inciampa spesso e casca nel fango. Stessa cosa dei filosofi, quelli veri. E come i filosofi (si ricordi la storia di Aristotele e Fillide ad esempio) il poeta si lascia umiliare dalla bellezza, dall’erotismo, dall’inutilità della saggezza di fronte a certi desideri del cuore e del corpo. Più ancora il poeta si lascia piegare, cavalcare, anche dai ricordi, dalle cose perdute.
Ma anche questa in fondo è una visione limitata del poeta. Perchè se poi espandiamo l’orizzonte temporale ci rendiamo conto che le memorie a cui fa riferimento il poeta ricordano esse stesse il poeta. Obbligandolo così a dover prendere atto anche delle memorie altrui, per quanto inaspettate, anche delle vite altrui. Obbligando il poeta ma in fondo è questo ciò che il poeta deve saper fare: guardare l’essenzialità del particolare nell’insieme, saperlo capire, compatire a volte. Certo per imparare ci vogliono anni, molta maturità, sedimenti d’esperienza.
Questo dice Cees Nooteboom nelle sue poesie. Testi che sono più dei quadri, dei dipinti, delle meditazioni sull’essenzialità della vita e delle cose. Nooteboom guarda la vita, la vive, appunto la medita quasi da un angolo. Per poi esprimerne lo stupore, nel bene quanto nel male, che sempre ne emerge.
Nulla
La vita
dovresti poterla
ricordare
come un viaggio all’estero
e con amici o con amiche
parlarne poi
e dire
è stata bella, no?
la vita,
e vedere frammenti di donne, segreti
e paesaggi
e lasciarsi poi ricadere soddisfatti
ma i morti non possono lasciarsi ricadere.
E nemmeno nient’altro possono fare.
Picasso, ultime incisioni
In questa nube si accoppiano,
in questa nube nera, il desiderio nero inchiostro
costretto nel rame, netto e tenace,
dal veggente dietro la tenda, vuole
vuole anche quella donna e quell’uomo,
la doppia figura in cui
penetra e si rannicchia
come un tempo, quel secolo prima.
Nell’abbraccio inciso
cerca un mare e un letto, grida
di maree perdute, di un eterno
amplesso, con la nostalgia di chi
è costretto a vedere.
Rilke, ritratto da Paula Modersohn-Becker, 1906
Così era dunque, quel Rilke, nel 1906,
un volto lebbroso di poesie
occhi tutti pupille, biglie nere
sul marciapiede della morte.
Colletto alto e rigido, orecchie appiccicate poi
e nel mezzo una macchia
in ascolto di quel che il mondo rinnega
prima che inizi la poesia.
Non è il ritratto di un corpo, questo
ma un requiem rovesciato
rivoltato con un coltello di sonetti,
bellezza contaminata e bruciata.
Né contesse né principesse, qui,
il taglio di capelli apre sulla fronte
uno spazio pieno di terrore,
qui, ormai, resta solo la bocca del lutto.
Noche transfigurada
Sul terrazzo, nel buio, la tua voce:
neanche oggi ho visto qualcuno
rubare al cielo il fuoco
che racchiude la luce.
Tacevamo. Nomi di pittori e poeti
tracciavano il loro chiarore nella luce.
La notte era un’ombra
fatta di altre ombre,
schacchiera doppiamente ingannevole.
Così venne dato, così rimase
sotto la frusta dell’eterno cocchiere.
Alcuni tacciono, pensano e soffrono,
altri coltivano un sogno di affinata violenza.
E l’ultimo dei giorni
nessuno raccolse i nomi. Nessuno vede
il fuoco che a lungo ti ha nutrito
consumare lentamente le foglie
e spegnersi.
Così poteva essere
Così poteva essere:
una cosa lurida desidera una cosa sporca per il mattino,
la rosa dipinta
vuole entrare nel capolavoro.
Il piccolo vuole avere
qualcosa d’ancor più piccolo per il viaggio,
il grande fa acquisti
dal gigantesco.
È difficile difendersi.
Vedi la farfalla, più grande di tutta una mano,
vedi i fiori smuovere il terreno,
il verme che pare un serpente.
Questo è il peso
che fa saltare la bilancia.
Esistere in questo
con il tempo come capigliatura,
come dio d’un fuggevole universo,
ecco, mio caro amico, cos’è la vita.
E sempre è stata quel che è.
Ordine
Gli dei sono mortali,
ma non è concesso loro morire. Dietro
le loro finestre regna l’indomabile caos,
il signore del nulla.
Lì l’acqua si muta in fuoco, si libra
il mare nel cielo, lì gli elementi
leccano via la vista dagli occhi
altrui, lì partorisce la legge casuale
una legge senza leggi, la sciagura
che si converte in purezza,
la mela che cade come un aerostato
in fiamme, il falsificato valzer delle ore,
la conclusione priva di somma.
Meditazione
Squillar di trombe, una mattina così.
Il gatto diretto all’ufficio,
palma in preghiera
mormorio d’anime
sul quotidiano della capitale.
Nomi, più vuoti che mai,
volano contro le finestre,
stridono rumorosamente.
Guardo la lancetta,
quella guardia notturna dei giorni, la mia ombra.
Ai miei piedi un distinto presentimento,
in grembo due calendari.
Sono pronto a tutto!
Lingua segreta, massime dal di fuori.
Chi conta ha presa sulle cose,
ala di farfalla, cemento, lucertola,
lo sporco, la ripetizione,
e altro ancora, e altro ancora,
un’addizione di tempo trascurato.
