
A Samuele
che oggi compie dodici anni
16.10.2018
PLATONE E LA CAGNETTA DI NOME CAMILLA
Alessandro Canzian
CHE CI FACCIO QUI?
Tutti bene o male conosciamo la storia di Platone. Chi per averla imparata a scuola, chi per averla letta in qualche libro. Platone è un ragazzotto di circa dodici anni non molto alto, biondo, con un sederotto che comincia a essere più tondo della sua testa, che un giorno senza motivo si sveglia dentro una grotta. Ma una grotta proprio grande, buia, un po’ umidiccia e fredda. Una di quelle che ti fanno venire paura di ragni e pipistrelli. E già sappiamo che tra una cosa e l’altra alla fine riesce a uscirne.
Ma pochi sono a conoscenza di cosa succede al nostro protagonista una volta che è fuori dalla grotta. E io sono qui, guardate un po’, a raccontarvelo. In realtà non so nemmeno io chi mi abbia messo così stretto stretto tra le pagine di questo libriccino. Immagino di provare la stessa meraviglia di Platone quando, dopo essersi addormentato sul letto, si è svegliato in quella cavolo di caverna. E poi, dico io, ma proprio in una caverna doveva svegliarsi? Non poteva apparire in una sala giochi piena di playstation? Ma tanto lo sappiamo che le storie, per essere storie, devono sempre iniziare con qualcosa che va storto.
Stessa cosa potrei dire di me. Perché mettermi in un libro? Buttatemi dentro Fortnite, dentro Call of Duty (Gta no perché non mi è mai piaciuto troppo), dentro Minecraft. Sarei certamente più utile con un fucile che spara agli zombie che tra articoli, virgole, pronomi, verbi e soggetti messi assieme per dire qualcosa che un buon programmatore potrebbe raccontare meglio disegnando mostri pieni di sangue.
Ve lo immaginate Platone che si sveglia dentro una grotta piena di zombie? No, in effetti nemmeno io. Gli zombie fanno paura, i libri un poco meno. Anche se a volte i libri sono più pericolosi degli zombie.
Ma torniamo al nostro Platone e procediamo con ordine.
LA CAVERNA OSCURA
Platone, lo ripeto per chi intanto se lo fosse dimenticato, è un ragazzotto di dodici anni. E qualche brufoletto sul naso. A dirla tutta ha dodici anni già da un pezzo. Infatti quando qualche vigile volenteroso (e un po’ fastidioso) lo ferma mentre corre con la sua bicicletta, lui per togliersi d’impiccio dice di avere sempre dodici anni. Quasi questo numero abbia un valore magico, salvifico, una sorta di mezza maggiore età. Quando hai dodici anni puoi andare in giro da solo. Puoi stare fuori con gli amici fino alle nove, nove e mezza di sera (d’estate). Certo poi ti becchi comunque la ramanzina di tuo padre (ma in fondo è il suo lavoro), ma a dodici anni puoi ben sopportarla.
Platone una sera se ne va a dormire nel suo bel letto, dopo aver giocato un adeguato numero di ore, e si addormenta tranquillo tranquillo. Facciamo finta di non sapere che quel disgraziato non si è nemmeno lavato i denti! Ad ogni modo si sveglia nel bel mezzo della notte, o in quella che a lui sembra notte fonda perché è tutto buio, e si accorge di non essere più nella sua camera.
Cioè: già qui mi girano le balle! Perché a quella viziata di Dorothy l’avete portata con tutta la casa fino al Regno di Oz mentre questo povero Platone pare venga rapito dalle presenze misteriose e invisibili e si sveglia magicamente in un posto oscuro e umido e magari pieno di bestie che neanche la bat-caverna? Ma ce l’avete proprio con lui o è Dorothy che viene trattata da principessina? Ad ogni modo, pace! Facciamo finta di niente e passiamo oltre.
Platone si sveglia in questo enorme posto nero e non vede niente. Nemmeno i suoi piedi (e speriamo che almeno quelli se li sia lavati!). Sente però muoversi qualcosa vicino a lui.
Ora lo sappiamo tutti che a dodici anni non si è più bambini ma ragazzotti, e che non si ha più paura del buio né dei misteriosi e terrificanti rumori che ci sono in una caverna da horror. O meglio, forse per questo servono almeno tredici o quattordici anni. Un po’ di paura in effetti Platone la prova. Ma sappiamo anche che piano piano nel buio più pesto e nero gli occhi finiscono comunque ad abituarsi e cogliere quel po’ di luce che è sempre presente. Questo lo dicono anche gli scienziati: il buio completo non esiste. È sempre presente un filino di luce. Basta attendere, e gli occhi si abituano.
Lentamente dunque gli occhi di Platone riescono a intravedere una forma, un corpo, poi un altro. Vede quindi dei ragazzi che giocano dall’altra parte della caverna. Platone si fa coraggio e va a parlare con loro.
Niente, non si degnano di rispondere. Che maleducati!
IL SALONE DEI GIOCHI
Passano le ore e quei ragazzi continuano a non rispondere alle domande di Platone. Poco per volta (e che bella cosa è la pazienza!) Platone si rende conto di cosa stanno facendo. C’è chi gioca al cubo di Rubik, chi legge un libro, chi gioca a scacchi, chi fa un disegno, chi scrive su un quaderno. No, playstation non ce ne sono. Peccato!
A questo punto Platone si pone una domanda. E direi che era ora! Si chiede come facciano quei ragazzi a giocare, a leggere, a scrivere se è tutto buio. Ma la domanda trova presto risposta. Dall’altra parte della caverna c’è un piccolo fuoco acceso.
«Ma dove cavolo mi sono svegliato?» si chiede il nostro ragazzotto ad alta voce.
«Sei nel Salone dei Giochi» risponde una voce un po’ beffarda, come se Platone avesse detto una sciocchezza leggendaria.
«Ma come Salone dei Giochi? Siamo in una caverna! Non vedete che è tutto buio e umido?»
«Ma quale buio e buio, pezzo di scemo! Siamo nel Salone dei Giochi e ci sono i nostri genitori che ci controllano come sempre»
Platone, incuriosito da quell’affermazione, si avvicina ai ragazzi e vede che in effetti sulla parete c’è qualcosa che si muove. Avvicinandosi ancora di più però vede che non sono genitori, ma ombre!
Allora cammina piano piano, per non inciampare in qualche pietra, verso il fuoco e trova dei sassi che proiettano quelle ombre vicino ai ragazzi.
«Ma no, sono solo ombre, qui non c’è nessuno»
«Ma non dire sciocchezze stupido! Non vedi che si muovono? Da quando in qua le ombre si muovono come persone?». E tutti i ragazzi si mettono a ridere.
Platone si imbarazza non poco e comincia a dubitare di quello che ha visto. In effetti mica siamo Peter Pan che possiamo perdere un’ombra e andarcene. Dove c’è movimento c’è qualcuno che si muove. Platone comincia quindi a credere di essere effettivamente in questo fantomatico Salone dei Giochi e che quelle ombre siano dei bravi genitori che controllano i propri figli. Quindi la sua stanza? I suoi genitori? Le corse in bicicletta raccontando al vigile che ha dodici anni da almeno due anni? Forse se l’è sognato. Spesso infatti quando sogniamo crediamo di essere svegli, e quando ci svegliamo dobbiamo controllare se quello che abbiamo sognato era vero oppure no.
Ma Platone ha uno di quei pregi tanto poco tollerati dalle mamme e dai papà quanto estremamente utili nella vita. È curioso (anche se un certo Ulisse bisogna dire ha passato buoni guai per la sua curiosità). Non è un credulone. Certo tutti quei ragazzi che ridono di lui non aiutano, sarebbe più facile credere a loro e mettersi a giocare. Ma Platone decide di avvicinarsi di nuovo alle ombre per osservarle meglio, anche se tutti lo stanno prendendo in giro.
L’ANGOLO NASCOSTO
Le ombre, porcaccia miseria, si muovono proprio! Ma sono ombre, su questo non c’è dubbio. Ma allora come diavolo fanno a muoversi? E pensa pensa a Platone torna in mente una vecchia storia che gli raccontava suo padre. Il fuoco è come un piccolo demone inquieto che non sta mai fermo. Ed ecco quindi la spiegazione! Per un secondo (ma solo uno) Platone è quasi contento che suo padre gli abbia raccontato quella vecchia storia, e corre verso il fuoco. E in effetti si muove, e con lui, ovviamente, le ombre sulla parete!
«Altro che genitori! Sono veramente solo ombre! Guardate qui!» urla Platone ai ragazzi. Ma quelli continano a ridere e giocare. A ridere di lui e giocare.
A Platone viene un poco di tristezza, oltre all’imbarazzo di avere tanti ragazzi che lo deridono, e si siede per terra. Quelli credono veramente di essere in un Salone dei Giochi accanto ai loro genitori, ma Platone ha capito che sono solo rinchiusi in una caverna con delle ombre. E sono così sciocchi da non rendersene conto.
«Certo che mi frega, dopotutto non si sta male nemmeno qui» si dice da solo per un attimo, ad alta voce. «Se la smettono di prendermi in giro li lascio credere quello che vogliono e magari mi metto a giocare con loro»
Ma a un certo punto si rende conto che la luce inquieta del fuoco non è l’unica fonte d’illuminazione che entra nella caverna. Un’altra, debole, da un angolo nascosto, appare flebile ma sicuramente presente. Allora si alza in piedi e va a vedere.
IL GIARDINO DEL SOLE
La luce flebile flebile come una tenda sottile è in realtà una piccola fessura nella parete della caverna. Piccola ma abbastanza ampia da far passare Platone dall’altra parte. Un passaggio certo ben stretto per quel corpicino dodicenne che, seppure esile, comincia a essere già abbastanza robusto. Ma Platone è preso da una curiosità terribile e corre velocemente da una parte all’altra sperando di non incastrarsi nel mezzo.
In pochi istanti si ritrova in uno spazio grande, chiaro, molto luminoso. Sente infatti l’aria fresca ma non riesce a vedere nulla accecato da quel biancore che gli fa male agli occhi. Si copre con le mani e si siede proprio davanti alla fessura che l’ha portato fuori. E pensa.
«Sento rumori come di una strada, gli uccellini, le foglie degli alberi, mi pare di sentire anche dell’acqua qui vicino. Devo essere in un giardino o qualcosa del genere» si dice.
E piano piano cerca di aprire gli occhi e di capire dove veramente si trova.
CAMILLA
La prima cosa che Platone vede è una grossa fontana di fronte a lui. Grande, maestosa, circondata da panchine di ferro un po’ vecchiotte ma ben tenute. «Lì non devo metterci i piedi sopra» pensa ricordando quel vigile solerte che giorni prima lo aveva sgridato. Dietro alle panchine vede gli alberi. Alti, verdi, con tronchi grossi e una piccola casettina per uccellini su di un ramo. Qualche persona vestita sportiva passa correndo con le cuffiette nelle orecchie. Platone è contento, nonostante la luce gli faccia ancora un po’ male agli occhi, di trovarsi lì. E pensa di tornare indietro ad avvisare gli altri ragazzi.
«Lascia stare, non ti crederebbero comunque» dice una voce squillante.
In realtà Platone non riesce ancora a tenere del tutto gli occhi aperti. È stato troppo tempo immerso nel buio della caverna e la sua vista è diventata troppo sensibile alla luce. E di fronte al sole è costretto a cercare di nuovo il buio. Per cui fatica qualche istante a capire da dove viene quella vocina.
Dopo un poco Platone vede di fronte a sé un piccolo cagnetto, o cagnetta, un meticcio di taglia non troppo grande ma nemmeno piccola come un chihuahua, che lo guarda seduto e con la lingua fuori. Una lingua proprio lunga, rosa come un fiorellino, degli occhietti scuri intelligenti e un naso grosso e umidiccio.
«Eh?» dice Platone.
«Avevi intenzione di tornare indietro vero? Te lo sconsiglio. Ti prenderebbero in giro. Loro credono che quella caverna sia tutto il mondo. Qui non sono mai arrivati»
Platone, ormai abituato alla luce, comincia a strabuzzare gli occhi tanto che sembra gli escano dalla faccia. Un cane parlante! Cioè, capisco lo svegliarsi magicamente in una caverna tenebrosa, capisco i ragazzi che credono che delle ombre siano i loro genitori, ma un cane parlante!!!
«Ma.. ma… ma…» bofonchia Platone.
«Eh?»
«No scusa… tu.. tu… tu….»
«Tu tu tu»
«Tu… tu…»
«Che sei? Un telefono occupato?»
Platone rimane un po’ basito da quella battuta, già sorpreso di trovarsi di fronte a un cane parlante, ma alla fine scoppia in una grossa risata che contagia anche il cagnolino (o cagnolina).
«Piacere, io mi chiamo Camilla», dice alla fine la cagnetta (e quindi è femmina!)
«Piacere mio, mi chiamo Platone»
«E quindi tu sei riuscito a uscire dalla caverna, sei il primo, devi essere bravo»
«Boh, non lo so. Perchè gli altri non escono?»
«Perché non sanno che appena fuori dalla caverna c’è questo giardino, e il mondo. Loro pensano che tutto sia lì dentro. Sono chiusi in quello spazio da così tanto tempo che non ricordano nemmeno più il nome dei loro genitori, il colore delle pareti delle loro camere, e via dicendo»
«Che cosa triste»
«Si un po’, ma così è la vita. Intanto vieni, ti faccio fare un giro qui attorno»
UNA CAGNETTA PARLANTE?
«Ma scusa… perché tu parli?» chiede Platone alla sua nuova amica Camilla appena fatti due passi nel giardino.
«Perché sono un cane, sono un essere evoluto. Mica come voi esseri umani»
«Evoluto? Che vuoi dire?»
«Beh, voi sembrate delle formiche. Dove ti giri giri salta fuori un nuovo essere umano. Noi cani invece siamo pochi, e col tempo abbiamo imparato a reincarnarci.
«Reincarnache?»
«Reincarnarci. Voi esseri umani saltate fuori come funghi sempre nuovi, noi per mantenere la nostra specie abbiamo dovuto inventarci la reincarnazione. Quando un cane muore ne nasce un altro con la sua stessa memoria, i suoi stessi ricordi. Insomma ogni cane non sai mai quanti anni effettivamente ha: alcuni duecento, altri ottocento. Per questo parlo»
«Perché sei vecchia?»
«No, scemo! Perché ho sentito moltissimi esseri umani come te parlare, e alla fine ho imparato anch’io. Il che devo dire a volte è utile, anche se non tutti capiscono. Tu si, credo perché sei uscito dalla caverna. Altri no perché non sentono, hanno la musica nelle orecchie come quella ragazza là.
Altri non vogliono proprio saperne di ascoltarmi perché un cane parlante non rientra in quello che loro sanno dei cani»
«Cioè?»
«Voi credete che un cane sia solo un cane. Lingua fuori, bava, scodinzolamenti, tutto un “siediti qui siediti là fai il bravo” e basta. E noi lo accettiamo, tanto siete già bravi a incasinarvi da soli. A volte invece interveniamo, vi aiutiamo, anche se la maggior parte delle volte ci date calci nella schiena e ci legate a un palo per paura che scappiamo»
«Eh si, questo è vero. Anche un’amica di mia mamma aveva una cagnetta che è morta così, di freddo, legata alla sua cuccia»
«Già, ne ho sentito parlare»
«E perché allora dici che comunque aiutate gli esseri umani? Perché non siete arrabbiati e mordete tutte le persone che vi capitano a tiro?»
«Tu sei giovane amico mio. Sei riuscito a uscire dalla caverna, ma sei comunque giovane. Noi cani invece siamo quasi tutti molto vecchi, abbiamo vissuto molte vite, visto molte cose. E questo, lo capirai un giorno, ti porta inevitabilmente a non avere più rabbia per nessuno. Capisci che le cose sono come sono e basta. Che puoi cambiare qualcosa, altre cose no. Vivere tante vite non dico che ti fa diventare più buono, questo forse no, ma sicuramente meno cattivo. Meno arrabbiato»
IL BAMBINO PERDUTO
Camminando per il giardino Platone e Camilla cominciano a diventare amici. Scoprono di avere avuto anche alcune conoscenze in comune. Un vecchio compagno di scuola che Platone frequentava quando andava ancora alle elementari. Uno un po’ pestifero ma divertente. E mentre camminano incontrano un bambino che piange.
«Ehi, che c’è? Perché piangi?» chiede subito Platone.
«Non trovo la mia mamma e il mio papà…» risponde lui.
«Se vuoi ti aiutiamo noi. Io mi chiamo Platone e questa cagnetta si chiama Camilla. Tu?»
«Io mi chiamo Marco»
«Quanti anni hai Marco?»
«Sette»
«Urca sei grande. Ma dove pensi siano andati i tuoi genitori?»
«Non lo so»
«Ok, proviamo un altro approccio. Senti Marco, cosa stavano facendo i tuoi genitori quando li hai persi?»
«Stavano litigando. Litigano sempre»
«Eh Marco, capita. Pure i miei pare abbiano come sport il bisticciare. Poi fanno pace tranquillo»
«Non lo so, si stanno separando dice la mia mamma. E il mio papà è sempre arrabbiato. Per questo li ho persi. Mio papà se ne è andato urlando da una parte, mia mamma dall’altra. E mi hanno lasciato qui»
«Genitori dell’anno» sussurra piano Camilla sarcastica.
«Sssshhh» la rimprovera Platone.
«Senti, secondo me la cosa migliore è sedersi su questa panchina e aspettare, cosa ne dici Marco? Se andiamo a cercarli magari, quando tornano, non ci trovano. Se stiamo qui una volta che si sono accorti che non ci sei tornano e ci trovano. Io e Camilla ti facciamo compagnia»
«E se non tornano?»
«Ma sì che tornano. Ti vogliono sicuramente bene. È solo che in questo momento stanno pensando di più alle loro cose»
«Io credo che non torneranno mai più a prendermi»
«Sempre più genitori dell’anno» sussurra di nuovo Camilla.
«Ssssshhhhh! Così non aiuti!» la rimprovera di nuovo Platone.
«Devi sapere, Marco, che le mamme e i papà sono persone come tutti. Cioè, dovrebbero essere perfetti e bellissimi come certi genitori dei film, ma non è così»
«La mia mamma è bella, il mio papà non molto, ha la pancia»
«Va beh pancia, a parte quello che voglio dirti è che le mamme e i papà sono come i bambini. A volte litigano, a volte si dimenticano le cose, a volte ci dimenticano. Bisogna avere pazienza. Non sono cattivi. Anche noi ogni tanto litighiamo e ci dimentichiamo degli amici e delle cose importanti. Solo che noi abbiamo dei genitori che ce lo ricordano. Loro non hanno nessuno»
«Avrebbero dei cani, se solo li ascoltassero», dice sempre sussurrando Camilla voltandosi dall’altra parte.
«Va bene, questo te lo concedo» fa eco Platone.
«Quindi tu credi che i miei genitori torneranno?»
«Ma certo che torneranno. Magari non subito, dipende da quanto erano arrabbiati. Intanto noi stiamo qui, magari stiamo attenti che non arrivi qualche malintenzionato e speriamo facciano presto»
«Per i malintenzionati abbiamo il tuo cane che ci può difendere, anche se non mi sembra molto feroce»
Camilla quindi si alza in piedi, punta un poco nell’orgoglio, con la faccia più cattiva che può e con la coda che, senza accorgersene, continua a scodinzolare.
«Hai ragione, Camilla non sembra proprio un cane feroce»
LA BICICLETTA RUBATA
Passano dieci minuti e i genitori di Marco effettivamente arrivano. Stanno ancora litigando, si accusano l’un l’altro di aver dimenticato il bambino. Ma arrivano.
«Vedi come siete voi esseri umani?» comincia a dire Camilla non appena Marco si allontana con i genitori.
«Non fate altro che accusarvi l’un l’altro. Siete sempre pronti a dare la colpa agli altri. E sai qual è la cosa più grave?»
«Cosa?»
«Che ci credete. Non lo fate solo per non avere le conseguenze delle vostre azioni, dei vostri sbagli. Spesso siete veramente convinti di essere nel giusto anche quando non lo siete. Non guardate le cose come sono. Non pensate se state facendo male agli altri, se fate dispiacere a qualcuno. Ci pensate solo quando siete voi che venite colpiti»
Ma all’improvviso ecco un ragazzo arrivare di corsa urlando.
«Voi! Voi! Avete visto un uomo in bicicletta?»
«No… no…» risponde Platone un poco spaventato.
«Mi hanno rubato la bicicletta! L’avevo appena comprata! Me l’hanno rubata!»
«Mi… mi… mi dispiace… non abbiamo visto nulla. Qui non è sicuramente passato»
Il ragazzo si siede sulla panchina preso dallo sconforto.
«E ora cosa dirò ai miei genitori? Cosa dirò ai miei genitori? Si arrabbieranno tantissimo! Se trovo quel maledetto lo uccido con le mie stesse mani! Sono sicuro che è uno di quelli nuovi che sono venuti ad abitare in via Dante Alighieri. Sono tutti disgraziati! Vengono da chissà dove a fare chissà cosa!»
«E ti pareva, la fiera dell’intelligenza oggi» sussurra nuovamente Camilla coprendosi gli occhi con le lunghe orecchie.
«Ma no, non puoi sapere chi ti ha rubato la bicicletta. Magari te l’hanno solo presa in prestito, o te l’hanno nascosta per scherzo. Magari la ritrovi» prova a suggerire Platone.
«Ma dove vivi? Una volta che ti rubano una cosa è persa. Quella gente là gode a portarti via le cose. Nascono per quello!»
Il ragazzo all’improvviso si alza e ricomincia a correre.
«Vedi cosa ti stavo dicendo? Subito pronti a dare la colpa a qualcuno. E non importa chi, basta che ci sia qualcuno da incolpare. Non importa se troverà mai la bicicletta, lui sarà soddisfatto se potrà incolpare qualcuno»
«Beh, però la bicicletta gliel’hanno rubata veramente. Anche a me è capitato una volta. Ero a casa e sono andato a prenderla, e non l’ho trovata. La mia vicina mi ha detto che me l’avevano portata via e mi è venuto il pianto in gola. Mi sono seduto e veramente mi veniva da piangere. Poi la vicina mi ha detto che era solo uno scherzo e devo dire non mi è piaciuto»
«Certo, ci credo»
«Ma perché le persone rubano? Tu lo hai mai capito?»
«Le persone fanno molte cose stupide. A volte per necessità, perchè non possono fare altro. A volte per stupidità, per gioco. A volte si fanno anche male. A volte perché non conoscono altra via che quella del furto. Ci sono persone, come quei ragazzi nella caverna, che pensano la vita debba a tutti i costi essere così, e si comportano di conseguenza»
«Ma quindi tu credi che non esistano persone cattive?»
«Oh, esistono amico mio. E nelle mie varie vite ne ho viste. Ma sono molte meno di quello che credete. Se guardate il mare senza entrarci vi sembrerà tutto uguale. Non distinguerete quello profondo dieci metri da quello profondo centro metri»
«E quindi? Non ti capisco»
«E quindi niente. Se guardi una persona solo da fuori, da quello che fa in un certo momento, non puoi dire se lo fa per cattiveria o lo fa per altri motivi. E onestamente non so nemmeno se voi esseri umani possiate veramente guardare dentro le persone. Noi cani si, lo impariamo dopo due/tre vite che viviamo»
Appena finito di parlare, mentre Platone ancora ascolta con attenzione, Camilla va dietro una panchina e comincia a fare beatamente la pipì.
IL LADRO
E mentre Camilla sta ancora finendo di fare i suoi bisogni, arriva di corsa un ragazzo di circa sedici anni. Camilla, infastidita, inizia a ringhiare. Si sa infatti che una delle cose più fastidiose per un cane è interrompergli la pipì. A dirla tutta è fastidioso anche per gli esseri umani, ma questa è solo una mia opinione personale. Mica vado a controllare le pipì degli altri.
Dicevo: arriva un ragazzo di corsa con la faccia spaventata e va a sbattere violentemente contro Platone. Cadono tutti e due per terra, e il ragazzo che prima correva comincia a dargli pugni mentre lui cerca in qualche modo di difendersi. Dovete sapere che il nostro ragazzotto, nonostante nei suoi sogni sia un mezzo super eroe potentissimo e con la muscolatura simile a quella dei fumetti, non è certo noto per la sua forza fisica e, a dirla tutta, nemmeno per la sua capacità di fare a botte. A dirla ancora più tutta Platone ha un carattere fondamentalmente mite, buono, facile all’ira ma non certo violento. Non ama azzuffarsi e personalmente non ho memoria che si sia mai veramente battuto con qualcuno, a parte suo padre per gioco.
Platone dunque cerca di prendere per i polsi il ragazzo ma non sempre ci riesce. È disteso per terra con quello seduto sulla sua pancia e cerca di fare forti i muscoli addominali proprio per non finire schiacciato. Chiude gli occhi, se li copre, gira continuamente la testa da una parte all’altra per non prendere un pugno sul naso. Non sa esattamente perché, ma nei film resta sempre molto impressionato dai nasi che sanguinano. E in uno di questi giri apre gli occhi un istante e vede Camilla beatamente seduta che lo guarda.
«A… a… aiuto…..» cerca di dire alla sua amica. E questa niente. Ferma come al cinema. Le mancano solo i pop corn.
«Aiuto! Aiuto!» riesce a gridare più forte verso Camilla. Che in tutta risposta alza la zamba posteriore e si gratta dietro le orecchie. Dietro le orecchie! A quel gesto Platone non ci vede più e gli viene una rabbia che nemmeno quel ragazzo era riuscito a fargli esplodere. Con un gesto di scatto fa cadere di lato l’avversario che continua a dare pugni all’aria. Pare andare avanti con il pilota automatico. Ed è un po’ ridicolo vederlo dare pugni al niente come se non si fosse accorto del cambio di situazione.
Platone si allontana, guarda con rabbia Camilla e sono sicuro che, se l’avesse avuta più vicina, le avrebbe dato un colpo. E in effetti lo sguardo del ragazzo che continua a dare pugni a vanvera e il suo sguardo ora si assomigliano molto. Guardando solo quel particolare non si potrebbe capire chi ha cominciato la zuffa e chi l’ha subita.
«Ma perché non mi hai aiutato?» grida Platone.
«Non mi sembrava avessi bisogno di aiuto» risponde Camilla.
«Quel ragazzo è il doppio di me! Avrà sedici anni!»
«Quel ragazzo lì? Quello che continuando a dare pugni all’aria sembra più una cimice rovesciata che una persona normale?»
E in effetti la scena comincia a sembrare veramente buffa. Platone furioso da una parte vuole picchiare Camilla. Quel ragazzo sconosciuto per terra continua a fare a botte da solo con il niente. E un gatto tranquillo, passando di lì, probabilmente si sta facendo una gran risata sotto i baffi.
IL DISCORSO DI CAMILLA
«Però mi dovevi aiutare! Quello mi stava ammazzando di botte» continua Platone mentre quel ragazzo si alza e corre via.
«Ti stava veramente ammazzando di botte? Ne sei sicuro?»
«Non hai visto che mi stava addosso? Sulla pancia? Non hai visto quanti pugni mi ha dato?»
«Sì certo, ma non vedo molto sangue»
In effetti Platone aveva dato per scontato di sanguinare e che la sua faccia fosse piena di bozzoli neri come spesso si vede nei film. Prova a toccarsi il naso e, a parte il suo stesso muco, non sente altro liquido. Niente sangue, niente di niente.
«Allora?» chiede Camilla.
«Non lo so! Lui mi stava picchiando! Basta!»
«Ma l’unico che ho visto sanguinare era lui». In effetti quel ragazzo, cadendo addosso a Platone, si era ferito il labbro e sanguinava dalla bocca. Una cosa non molto bella da vedere ma di certo non tremenda.
«Ma lui mi ha attaccato, aveva gli occhi aggressivi» ribatte Platone con sempre meno convinzione.
«Anche tu adesso hai gli occhi aggressivi contro di me. Ma non mi sembra di avere fatto nulla di male contro di te»
«Non mi hai aiutato»
«Non ne avevi bisogno. Non sei nemmeno ferito. Secondo me quel ragazzo scappava dal tizio di prima. Magari aveva paura di essere incolpato per il furto della bicicletta e si è scontrato per caso con te, e ti ha attaccato per paura»
«Non lo so, comunque mi colpiva», e Platone continua a cercare ematomi, ferite sanguinanti, pezzi di corpo persi durante la battaglia. Niente, neanche un’unghia da poter mostrare come testimonianza della tremenda zuffa e dei danni subiti.
«Evidentemente non così forte come credevi», ribadisce Camilla, «a me sembrava solo un ragazzo molto spaventato. Tu volevi che io morsicassi una persona spaventata?»
«Non… non lo so…. adesso mi confondi. Stai zitta!»
«Ah sì, facile dire agli altri di stare zitti. Classico di voi esseri umani. Quando una cosa non vi piace non la volete sentire. Purtroppo però, amico mio, se tu puoi sentirmi devi anche ascoltarmi»
«E perché? Io non devo fare nulla!» dice Platone di nuovo con rabbia sedendosi su una panchina. La rabbia questa volta non per la battaglia, ma per l’orgoglio ferito. Platone stava cominciando a dubitare della sua stessa rabbia, degli stessi pugni ricevuti.
«Mi devi ascoltare perchè mi puoi sentire. Un po’ come quando vedi una persona che sta male devi soccorrerla, e se non la soccorri diventa anche colpa tua che non hai fatto nulla»
«Non mi piace questa cosa»
«Ne sono sicura. Nemmeno a me è piaciuto vedere due cretinotti che si davano pugni come bamboline per bambine. E per nessun motivo!»
«Ma vai a quel paese! Mi ha fatto paura quello!»
«Non discuto di questo. Ma forse anche lui aveva paura e per questo ti ha attaccato. Molte volte voi esseri umani vi trattate male per paura o per mancanza di amore»
«Ma che ne sai tu dell’amore, sei un cane. Voi non vi sposate né altro»
«Credi che l’amore sia solo sposarsi? Certo negli anni vi siete convinti di molte cose buffe. Voi esseri umani amate poche persone e così credete di essere a posto. Di essere persone che amano. Noi cani amiamo tutti perché vi vediamo tutti uguali. Anche tra noi cani ci amiamo tutti, anche se a volte ci azzuffiamo e litighiamo. L’amore, quando vivi molte vite come me, capisci essere non un legame con una singola persona ma un legame con tutto il mondo. Poi certo puoi amare qualcuno in particolare, una persona speciale, una persona che per te rappresenta tutti gli esseri umani e il meglio di tutti loro.
Comunque sia, tornando alla tua ridicola zuffa, quel ragazzo aveva chiaramente solo paura. Se tu gli avessi guardato bene gli occhi lo avresti capito»
«Quindi tu stai dicendo che non era cattivo e non voleva farmi del male?»
«Secondo me no. Come ti ho detto voi esseri umani siete strani. Avete paura: attaccate. State male: attaccate. Qualcuno vi fa stare male: scegliete qualcun altro da far star male come voi. Vi sentite soli? Invece di diventare più gentili per avvicinare altre persone diventate ancora più aggressivi»
LA BICICLETTA RITROVATA
Dopo essersi soffiato il naso Platone e Camilla ricominciano a camminare. E dopo qualche passo incontrano quella ragazza che prima correva con le cuffiette. Adesso è seduta per terra e parla al telefono.
«Sì guarda, sono proprio stufa di lui. Basta! Io mi merito di stare bene! Merito d’essere felice!» dice la ragazza.
«Ecco un altro premio nobel del genere umano. Ascolta cosa sta dicendo» dice Camilla.
«Non mi sembra stia dicendo nulla di male. Vuole solo stare bene. Anche su questo hai da dire qualcosa?» ribatte Platone.
«No no, ascolta»
«Facciamo solo quello che vuole lui, solo quello che vuole lui! Gli chiedo di andare a fare la spesa insieme e niente! Gli chiedo di lasciarmi stare una sera che voglio uscire con le amiche e niente! Mi opprime, mi sento come un uccellino a cui vengono tagliate le ali. Non mi corteggia come dovrebbe e come ho bisogno»
«Eddai con questi uccellini, tirate sempre in ballo queste povere creature che vi stanno ben lontane», sussurra Camilla con fare molto infastidito.
«Io voglio poter fare quello che voglio, e lui deve stare zitto. Anche se mi arrabbio lui deve stare zitto. Ed è inutile che dica che io non lo faccio uscire, che faccio scenate di gelosia, che lo tratto male. Lui se lo merita, io no!»
«Capisci ora cosa intendo? Dai vieni che ce ne andiamo, che mi girano le balle che non ho. Stavolta veramente morsico qualcuno!» dice con voce grave Camilla.
Così la cagnetta e Platone tornano alla fontana dalla quale erano partiti e, camminando camminando, vedono un pezzo di ferro colorato dietro una panchina. Si avvicinano e.. sorpresa! La bicicletta perduta è lì, proprio lì.
«Eccola qui. Mistero svelato» dice Camilla, «probabilmente solo lo scherzo di qualche imbecille. Tutto qui»
I PESCI DELLA FONTANA
«Però, Camilla, non ho capito niente di quello che dicevi prima della ragazza. Non ti sei arrabbiata quando quel tizio mi ha picchiato… ok ho capito che non mi stava veramente picchiando… e ti arrabbi adesso per una telefonata?»
«Non è per la telefonata in sé, anche se non so come potete stare con quegli affari sempre attaccati alle orecchie. È quello che diceva. Voi esseri umani avete una ben strana visione della felicità. Credete che stare bene sia l’avere tutto quello che volete. Nemmeno quello che vi serve, solo quello che volete.
Eppure è chiaro che non funziona così. Quella ragazza si lamentava di non avere abbastanza attenzioni dal suo ragazzo. Si lamentava di non avere da lui quello che lei vuole. In questo modo non sarà mai soddisfatta perché continuerà a pensare a quello di cui ha bisogno, e solo quello.
Come questi pesci nella fontana. Guardali! Se pensassero solo a se stessi sarebbero tanti singoli pesci soli. Ne basterebbe anche solo uno e quest’unico, se avesse tutto quello che vuole, dovrebbe secondo voi essere felice. Invece guarda come si muovono assieme»
«Come un branco»
«No, non come un branco, ma come un gruppo. Il centro di tutto per questi pesci non è dentro di loro ma fuori. La cosa più importante per loro sono gli altri. Ognuno aiuta il gruppo ad andare nella direzione giusta tutti assieme.
Così dovreste fare anche voi, secondo me. Dovreste pensare più alla felicità altrui che alla vostra, per stare veramente bene.
Certo poi ci sono le esagerazioni. Come in tutte le cose il giusto sta nel mezzo. Nei film d’azione e di guerra si vedono spesso grandi sacrifici di uomini che muoiono per il bene degli altri. Anche questo spesso è solo una forma di buon egoismo. Una volta infatti ho sentito dire una cosa che mi ha colpito molto: è molto più facile morire per un’idea che vivere per essa»
«E cosa vuol dire?»
«Semplicemente che a voi esseri umani non piace fare fatica. Preferite distruggere invece che costruire. Perché a distruggere ci mettete poco, a costruire molto»
«Bon ma io ho solo dodici anni, non sono ancora cose che mi possono interessare»
«Forse. Certo per certe cose hai già dodici anni e ti stanno bene. Per altre cose hai ancora solo dodici anni eh? Sei un po’ furbetto. Mi chiedo come hai fatto a uscire dalla caverna con questi discorsi in testa»
«Ma scusa…» tenta di ribattere debolmente Platone un po’ vergognandosi della brutta figura fatta.
«Ma non stare a imbarazzarti, scemo! Sai, anche noi cani ogni tanto facciamo la pipì, e non solo quella, dove non dovremmo. Capita. L’importante è capire che quando hai fatto una stupidaggine hai fatto una stupidaggine. Te ne prendi le conseguenze e non la fai più. E magari quando ne hai l’occasione aiuti qualcun altro a non farla.
Tornando al discorso della fatica e del sacrificio, capisco che ti sembrino cose un poco lontane. Ma lascia che ti faccia una domanda»
«Ok»
«Hai mai litigato con un amico?»
«Sì certo, uno in particolare: prima era il mio migliore amico e adesso non parliamo più»
«E c’è differenza con il discorso che facevo prima?»
«Molta. Un litigio non è una guerra»
«Hai ragione, ma solo perché le misure sono diverse. Un litigio tra due ragazzi porta a non parlarsi più. Un litigio tra due nazioni porta alla guerra. È solo questione di misure. Certo capita ogni tanto di litigare. Ma se non stai attento ti ritrovi che non parli più con il tuo migliore amico. E sai perchè?»
«No, perchè?»
«Perché non ti sei impegnato. Voi esseri umani non amate impegnarvi, fare fatica. Ma se fate attenzione già alle piccole cose, se non fate diventare i piccoli contrasti grandi litigi, vedrai che poi tutto andrà meglio. Nessuna amicizia andrà persa perché invece di distruggerla farete qualcosa per mantenerla, per fare la pace»
«Fare la pace»
«Sì, si dice nella medesima maniera. Sia tra due amici che litigano sia tra due nazioni in guerra»
LA SOLITUDINE DEI RAGNI
«Però, Camilla, finchè parliamo dei pesci della fontana tutto fila liscio. Ma se parlassimo dei ragni? Quelli vivono da soli nelle loro ragnatele». Platone, dopo aver visto tra i rami di un albero una grossa ragnatela, la indica a Camilla.
«Sì, hai ragione. Molti animali vivono da soli. In realtà voi siete uno dei pochi animali sulla terra incapaci di vivere senza gli altri. Forse addirittura gli unici»
«Animali?»
«Esatto. In fondo siete anche voi animali, come me, solo non così evoluti. Credete di esserlo, ma più intelligenti siete più mettete volontariamente da parte le cose importanti della vita. Una volta avevo un amico umano, tanto tanto tempo fa, che mi diceva sempre che l’uomo è un animale sociale»
«E cosa vuol dire?» chiede Platone.
«Che siete anche voi uguali a noi, siete animali, ma più deboli. Non sapete vivere da soli»
«Ma veramente tutti gli animali possono vivere da soli? Prendi ad esempio i lupi. Vivono assieme»
«Aaaahhhh, ma tu mi vuoi provocare allora. Vuoi parlare dei miei zii. Di quei selvaggi montanari che credono d’essere chissà chi solo perché non devono prendere ordini da nessuno.
Certo loro sono liberi nel senso che fanno quello che vogliono, ma devono lottare per mangiare. Io ho quasi sempre un essere umano che si occupa di me. è vero che a volte prendo calci, ma i lupi vengono cacciati. E poi pensa a tutte le storie brutte sui lupi cattivi. Pensa a quella poveretta della nonna di Cappuccetto Rosso che fine ha fatto»
«Sì ok, ma non hai risposto alla mia domanda»
«Hai ragione»
Intanto Platone e Camilla si siedono di fronte alla ragnatela con una mosca che ci gira attorno, attenta a non cascarci.
«I lupi sono animali molto sociali, è vero, ma possono benissimo vivere da soli. Se ci pensi è più probabile trovare un lupo solitario che un essere umano solitario. Anche quelli che sembrano più isolati alla fine cercano qualcuno con cui parlare, o se lo inventano. I lupi no»
«Quindi siamo solo noi ad avere paura della solitudine?»
«Un po’ sì. Quel ragno ad esempio sta benissimo da solo. Non ha bisogno di parlare, chiacchierare, raccontare storie ad altri ragni. Vive e sta bene così. Onestamente però c’è una cosa a cui penso ogni tanto, vuoi sentirla?»
«Sì, dimmi»
«Penso che sarebbe molto meglio per voi se viveste da soli, isolati, senza bisogno l’uno dell’altro»
«Perchè?»
«Perché siete animali sociali, questo ti ho detto sentivo spesso dire da quel mio amico, ma ho anche sentito dire che l’uomo è lupo all’uomo, guarda caso tirando in ballo i miei zii»
«L’uomo è lupo che?»
«L’uomo è lupo all’uomo. L’uomo aggredisce, comanda, sottomette altri uomini. E mi pare sia una cosa assolutamente vera come la frase: l’uomo è un animale sociale. Insomma voi esseri umani siete una contraddizione vivente. Non potete stare gli uni senza gli altri ma non potete non cercare di comandarvi e sottomettervi gli uni con gli altri»
«Questa però è una cosa molto triste. E allora perché non siamo come quel ragno? Soli e felici?»
«Perché voi siete fatti così. Avete delle cose molto belle e delle cose meno belle. Quando le accettate, quando accettate i vostri difetti di natura, diventate ottimi animali. Non proprio come i cani ma quasi»
«E cosa vuol dire accettare i propri difetti?»
«Ah, è molto semplice. Voi passate anni a dirvi che non potete fare questo e non potete fare quello. Passate anni a sentirvi in colpa se pensate e fate cose sbagliate, e questo lo capisco. Ma non avete ancora capito che per diventare migliori non serve eliminare ciò che credete sia un difetto. Così fate peggio, lo ingrandite ancora di più. Dovete accettarlo, guardarlo e dargli la giusta misura»
«Ancora la misura. Come prima con il discorso dei litigi»
«Esatto. Prendi ad esempio quel ragno. Se ne hai paura e lo guardi ti spaventi, lo senti come una minaccia. Ma se ti fermi un attimo a pensare ti rendi conto di quanto è piccolo in confronto a te, e vedi che tutto sommato è molto lontano e non ha nessuna voglia di saltarti addosso. Si farebbe male da solo, e queste stupidità le avete solo voi esseri umani»
«Quindi basta che non mi avvicino troppo al ragno?»
«No, non è questo il punto. Il punto è fermarsi un attimo a valutare la situazione per quella che è. Fermarsi a capire cosa sta veramente succedendo. Fermarsi a pensare»
«E cosa c’entra tutto questo con la solitudine?»
«Non lo so. Però mi sono fatta una mezza idea, una mezza convinzione, negli anni. Secondo me se voi esseri umani pensaste un po’ di più, soffrireste un po’ di meno»
LA FINE DELLA GIORNATA
«E adesso? Come torno a casa?» chiede Platone riprendendo a camminare.
«Sei già a casa. Sei nel tuo letto»
«Eh? Cosa stai dicendo? Sto dormendo?»
«Scusa, ma tu pensavi veramente di svegliarti magicamente in una grotta e di poter parlare con un cane e di essere sveglio?»
«Beh sì, un poco mi hai convinto. Ma quindi quei ragazzi nella grotta e quelle persone che abbiamo incontrato qui?»
«Ah, questo è tutto vero. Solo che state tutti dormendo. E state facendo le medesime cose che fareste da svegli»
«Quindi quei ragazzi là sotto sono veramente chiusi in una grotta?»
«Sì, nella loro testa. Come quell’altro aveva veramente paura, il bambino si era veramente perso, la ragazza stava veramente parlando al telefono. Tutto nella loro testa ma vero»
«Incredibile…»
«Neanche più di tanto. Per me è più incredibile che voi possiate parlare da lontano senza ululare. Anche se noi cani ci capiamo decisamente meglio»
«E come faccio a svegliarmi adesso? A tornare a casa?»
«Non è difficile. Basta che andiamo a casa tua e una volta che entrerai nella tua stanza, paf! Ti sveglierai. Credimi»
«Ok, ma quei ragazzi là sotto?»
«Quelli nella caverna?»
«Sì»
«Quelli stanno lì. Da quando sono qui tu sei l’unico che è uscito»
«Quindi loro se ne stanno chiusi laggiù al buio convinti che tutto il mondo sia quella caverna?»
«Esatto»
«Ma io sono uscito»
«Vero. Inizialmente ho pensato tu fossi più intelligente degli altri, adesso che ti conosco mi sa che sei stato solo più fortunato» dice Camilla con un’occhiata molto divertita. E Platone risponde con uno sguardo decisamente risentito.
«Non puoi farci niente amico mio. Sono lì e sono convinti d’essere nel giusto. E comunque devo andare via anch’io oggi. Sono rimasta abbastanza in questo giardino e ho bisogno di cambiare aria»
«Ma posso andare a dirgli che si stanno sbagliando, che sono soli con delle ombre che non sono i loro genitori?»
«Vedi che sei stato proprio solo fortunato a uscire da quella caverna ragazzotto mio? A quanto ho sentito ti hanno già preso in giro, hanno già riso di te. Come se non bastasse qui fuori te le sei pure beccate anche se non come inizialmente pensavi, e adesso mi dici che stai pensando ancora a loro?»
«Non lo so, sei tu che mi hai detto che i pesci vanno avanti tutti insieme, e tutti insieme decidono dove andare per il bene comune»
«Vero, ma appunto sono pesci. Anche loro sono decisamente più intelligenti di voi esseri umani»
Platone resta per un poco fermo di fronte alla fessura della caverna, poi continua:
«No senti, non me la sento di andare a casa adesso»
«Dimmi la verità: non hai fatto i compiti e non vuoi andare a scuola. E pensi che restando qui la scamperai»
«No no, non è questione di compiti, quelli li ho fatti ieri»
«Sei sicuro?»
«Ma poi scusa, se questo è solo un sogno anche se resto qui mica vuol dire che non vado a scuola. Quando suonerà la sveglia mi sveglierò comunque, farò colazione e ci andrò»
«E ti laverai i denti!»
«Sì, mi laverò i denti!»
«Però se decidi di restare qui il tempo per te si fermerà. Quando ti sveglierai nel tuo letto sarà passata solo una notte, ma qui potrebbero essere passati anni. Inoltre tieni conto che io ho già deciso di andarmene. In realtà me ne stavo già andando quando ti ho visto sbucare fuori, e solo per questo mi sono fermata un po’ di più»
«Sì, l’ho capito. Ma posso farti una domanda?»
«Certo»
«Veramente non è uscito mai nessuno dalla caverna?»
«Mai nessuno, nossignore»
«Ma io sono uscito»
«Sei stato fortunato»
«E non potrebbero esserci altri ragazzi fortunati come me?»
Camilla riflette per qualche istante, poi risponde:
«Questo in effetti non lo so. Immagino che potrebbe essere»
«E tu vuoi andartene via»
«è tantissimo tempo che sto qui. Sono stanca»
IL SOLE NEGLI OCCHI
In quel giardino, adesso che Platone ha capito che si tratta solo di un sogno, molte cose cominciano a essere chiare. Prima fra tutte il fatto che non piove. Dove vive Platone piove praticamente sempre, e quando non piove ci sono le nuvole. Lì invece il cielo è chiaro e azzurro come nelle giornate d’agosto al mare. Altra cosa strana è la temperatura. Non fa caldo né freddo.
Platone guarda con curiosità quello strano mondo di sogno che sta condividendo con le altre persone che vede passare. Tutti sognano, eppure è reale quanto il mondo quando si è svegli. Perché è nel pensiero, nella testa, che nascono le azioni. E pensare una cosa è quasi come farla.
A Platone torna in mente un vecchio discorso di suo padre: la responsabilità non è nelle azioni ma nei pensieri. Se pensi di fare una cosa brutta ma non ci riesci per un motivo estraneo a te ne sei responsabile lo stesso, perché volevi farla. Solo ti è stato impedito e non è merito tuo. Per qualche motivo Platone ora inizia a capire quelle parole, e a crederle addirittura vere.
Certo senza esagerare. Suo padre spesso gli diceva che capita a tutti di arrabbiarsi, di desiderare di fare qualcosa di non esattamente giusto. Il punto è pensarci, rifletterci e decidere bene. Perché ci sono cose che poi possono portare brutte conseguenze, altre che sono sbagliate e basta ed è meglio non farle. Platone ricorda il ragazzo derubato che voleva a tutti i costi dare la colpa a qualcuno senza in effetti cercare la bicicletta.
Così Platone saluta per l’ultima volta Camilla, la cagnetta parlante, e torna nella caverna. Decide infatti di aspettare un poco per vedere se riesce a convincere altri ragazzi a uscire. Chissà, magari qualcuno ha una mezza idea di provarci. Decide di rientrare per rendersi utile e assomigliare un po’ più a quei pesci nella fontana che agli esseri umani.
Camilla lo saluta e se ne va. Platone rientra ma il buio è ancora più denso di prima perché la luce del giardino, alla quale aveva abituato gli occhi, era veramente forte. Quando rientra la solita voce beffarda gli dice:
«Allora intelligentone! Hai trovato quello che cercavi? Credi ancora che siamo dentro una grotta?» e i ragazzi ricominciano a ridere e a deriderlo.
Platone però non vede veramente niente dentro la caverna, e al primo sasso un po’ più grande cade per terra. Alla sua caduta i ragazzi ridono ancora più forte e gli danno dello scemo, del cretino. Ma Platone questa volta non si arrabbia, non si sente a disagio. Per quanto possa sembrare strano gli viene in mente una vecchia poesia che aveva letto. Non la ricorda per intero, ma se ne ricorda il finale. Un uccello molto grande, maestoso, un Albatro, viene preso in giro da alcuni marinai perché si muove goffamente sul ponte della nave dove è stato catturato. Veramente una cosa ridicola, e tutti ridono di lui. Quell’uccello che è il re di un cielo inarrivabile agli uomini viene deriso quando è catturato e deve strisciare per terra.
Platone dunque si rialza e pazientemente si siede vicino ai ragazzi. E aspetta. Passano le ore, forse i giorni, in quel lunghissimo sogno nel quale Platone aspetta di aiutare qualche ragazzo a uscire dalla caverna. Spesso si annoia, spesso gioca con loro. Spesso li guarda e basta.
Camilla però non lo ha dimenticato e non se ne è veramente andata. Ogni tanto anche lei torna nella caverna, con quel suo musetto buffo e la coda che sbatte da una parte all’altra, e lo va a trovare. E lo fa, ogni volta, con un regalo.
Non so se sia veramente intenzionale o se sia una cosa che capita e basta, ma ogni volta che la cagnetta scende per la fessura della grotta le rimangono incastrati dentro gli occhi alcuni piccolissimi raggi di sole che, vicino a Platone, si illuminano sempre di più, ricordando al nostro ragazzotto buono di cuore la bellezza della luce là fuori.
E perché ha deciso di stare ad aspettare altri ragazzi che vogliono uscire a vederla.