Un resoconto del 2018

 

Un anno veramente denso e intenso il 2018. Ogni dicembre faccio il resoconto della Casa Editrice ma, dato l’importante ampliamento e la strutturazione in diversi percorsi della Samuele Editore, questa volta ho fatto i resoconti anche di Laboratori Poesia, Una Scontrosa Grazia, Poeti in Incisoria. E allora perché non mettere giù due righe pure su un qualcosa di più personale, che magari interesserà giusto i classici venticinque lettori (e quanto abbiamo abusato di questi venticinque poveretti)?

Oltre alla Samuele Editore ho proposto e seguito due progetti: Poesía Italiana / La Lengua Incansable – 10 Voces Contemporáneas (testi di Roberto Cescon, Federico Rossignoli, Sandro Pecchiari, Alberto Toni, Luigi Oldani, Giovanna Rosadini, Luigia Sorrentino, Gian Mario Villalta, Giovanna Frene, tradotti da Antonio Nazzaro) edita in Argentina dalla Buenos Aires Poetry, e con Simona Wright Writing in a Different Language che uscirà nella rivista statunitense Nemla nel 2019 con testi di Ilaria Boffa (saggio introduttivo di Simona Wright), Moira Egan (saggio introduttivo di Victor Zarour Zarzar), Monica Guerra (saggio introduttivo di Ernesto Livorni), Allison Grimaldi Donahue (saggio introduttivo di Cristina Perissinotto), Baret Magarian (saggio introduttivo di Andrea Sirotti), Sandro Pecchiari (saggio introduttivo di Al Rempel), Brenda Porster (saggio introduttivo a mia cura), Rachel Slade (saggio introduttivo di Loredana Magazzeni).

A livello di recensioni mi sono occupato dei libri di Gabriella Musetti, Luca Bresciani, Francesco Belluomini, Domenico Cipriano, Melania Panico, Nicola Vitale, Giovanna Cristina Vivinetto, Melita Richter, Franco Buffoni, Pierangela Rossi, Zingonia Zingone, Beatrice Cristalli, Roberto Cescon, Alessandro Mistrorigo, Antonio Nazzaro, Giovanna Rosadini. E sto per far uscire le recensioni ai libri di Emilia Barbato ed Allison Grimaldi Donahue.

 

Come autore di versi (quest’anno mi è stato detto alquanto mediocre) non scrivo nulla da mesi (praticamente anni) se non un editing del mio Condominio S.I.M. a più riprese con Maurizio Cucchi. Motivo per cui, giusto per lasciare due versi, devo andare indietro nel tempo e trascrivere tre poesie che avevo scartato:

 
La ragazza all’altro lato del vagone
s’è appena tolta le scarpe con il gesto
stanco di chi ha caldo e fame
e una notte insonne come la mia.
Non provo nemmeno a parlarle
perché non credo conosca la mia lingua.
All’altro capo un bimbo annoiato
salta tra Ferrara e Bologna mentre chiede
alla madre di ritrovargli un giocattolo
che ha perso chissà dove. Fuori dal finestrino
due ragazzi affondano in un bacio
mentre a pochi chilometri un gatto
muore schiacciato da una macchina.
 
 
 
 
Scrivere poesie non è mai servito.
Meglio sarebbe giocarsela
a chi ha i polmoni più forti e gambe
più robuste per la corsa. Altri
penso addurrebbero l’estetica
di una ragazzina inequivocabilmente
bella e con le gambe color di sabbia
e direbbero che anche Dio s’è sospeso
all’altezza del suo ginocchio. Meglio
sarebbe non dire, non fare, nemmeno
pregare Dio o le sue ginocchia.
 
 
 
 
Penso potrebbero bastare
due zollette di zucchero grazie
di quelle che non si usano più
perché ci si metteva la menta
o la medicina che ci avrebbe salvati.
Poi sarebbe arrivata l’argilla
contro le tonsille, le carote
centrifugate con i robot visti
alla televisione, e il pallone da prendere
con le merendine della Motta.
 
 

Ho incontrato molti poeti, veramente molti, in questo 2018, e qualche artista. E devo ammettere che per buona parte, pur cercando di approfondire con criterio per non fermarmi a una semplice opinione, ho trovato che la chiave di lettura data da Gabriella Musetti a una cena una sera a Trieste ben si applica per intus legere questi individui e cosa fanno.

Stiamo attenti a non estetizzare il dolore

Il dialogo verteva sull’uso della propria autobiografia a fini poetici senza scadere nell’isolamento dell’io (ne abbiamo parlato anche con Franco Buffoni a Trieste, e io in una piccola recensione al suo La linea del cielo). Allargando la definizione all’arte e alla poesia in genere il monito diventa:

Stiamo attenti a non estetizzare

In effetti quando leggo versi in giro (veramente molto meno di quanto dovrei e vorrei, ma una Casa Editrice come la Samuele Editore fagocita tutto il tempo) mi viene sempre il dubbio siano esposizioni di un qualcosa sul quale al poeta piace soffermarsi, indugiare, esporre. O esporsi.

Il concetto di esposizione lega molto poesia e arte, linguaggio che pure devo dire non mi appartiene. Quest’anno visitando alcune mostre in giro per l’Italia sono rimasto molto perplesso in relazione al concetto di esposizione. Oggi gli artisti, più dei poeti, sono costretti a incorniciare le loro opere in una spiegazione infarcita di teoria (spesso molto blanda), di citazioni, di buoni propositi. I poeti invece no, in quanto il linguaggio appare più immediato, più abbordabile.

Ma questo è, a tutti gli effetti, un estetizzare un’immagine (artistica o poetica) con la medesima dinamica del selfie. Un’autocelebrazione dove l’arte e la poesia sono strumenti d’illuminazione dell’autore e non metafora di qualcosa di più grande, e più utile. Ma se la poesia e l’arte sono fondamentalmente esperienza, allora dobbiamo trattarla come tale. E l’esperienza porta, come naturale conseguenza, all’applicazione. Ma non l’applicazione formato tempi da social (che diventa esposizione), ma umana.

In buona sostanza l’estetizzazione è un’esposizione del sé, l’applicazione è una relazione con il mondo che ha degli effetti tangibili, non superficiali. Certo oggi credo sia difficile non solo per gli artisti, che si trovano in una sorta di età dell’oro dove basta aver letto qualche poeta apparentemente fuori dagli schemi e sapersi vestire di concetti facilmente fruibili, o per i poeti a cui basta saper raccogliere più like possibili, ma per le persone in generale accettare che non basta adottare una posa per lasciare un segno nella storia.

A tutti gli effetti oggi la storia non interessa più. Viviamo in un continuo presente che deve bastare a se stesso. Ciò che è stato ieri, la tradizione, è funzionale alla nostra esposizione. Domani è domani, e non ci interessa. E in quest’ultimo rientra l’aver perso completamente la consapevolezza della causa-effetto.

Come società ci concentriamo da una parte sui colpevoli, li cerchiamo, li inventiamo. E pensiamo che basta punire, recidere, e tutto si risolve. Da un altro punto di vista tendiamo a non considerare più in maniera netta ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Anche in questo caso ciò che è sbagliato lo consideriamo solo in funzione di ciò che può dare a noi. Una relazione in qualche modo sussiste, tra noi e gli altri, ma a senso unico. È un po’ come se stessimo dicendo: tu esisti solo se io posso mettermi in mostra grazie a te. E questo l’ho visto a tutti i livelli.

Uno di questi, ad esempio, si riferisce al mio essere padre di un ragazzotto di dodici anni. A scuola un esperto ci ha parlato dei rischi che corrono i nostri figli a causa di tutta una serie di fattori che qui non starò a ripetere. Portando l’esempio di un ragazzo che, di fronte a una coetanea che su youtube dichiarava di volersi suicidare, gli ha detto e suicidati. Salvo poi, lo stesso esperto, mezz’ora dopo in relazione ai ragazzi che sempre su youtube fanno le challenge dire: si lo so, questi dovrebbero solo spararsi.

Questo piccolo esempio ci dice una cosa fondamentale: manca la consapevolezza della causa-effetto. Le cose avvengono per un motivo e a noi, diciamoci la verità, non interessa più il motivo ma solo l’ultimo anello della catena, il fatto, soprattutto se possiamo indignarci esponendoci così alla platea della piazza.

 

In tale contesto certo non possiamo aspettarci che i poeti e gli artisti facciano di meglio. Moravia ben ricordava che di poeti (oggi dovremmo specificare veri poeti) ne nascono tre o quattro ogni secolo, e direi che anche per gli artisti vale bene la medesima regola. Però qui non parliamo più di arte o poesia, ma di consapevolezza, che pure è l’ambito privilegiato dell’arte e della poesia. E che deve diventare applicazione pena la sua inutilità.

Poi abbiamo perduto anche il simile. Cosa intendo per simile: intendo che lui ha fatto delle cose, si è allineato nella nostra cultura, accanto ai nostri maggiori scrittori, ai nostri maggiori registi. In questo era simile, cioè era un elemento prezioso di qualsiasi società. Qualsiasi società sarebbe stata contenta di avere Pasolini tra le sue file. Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo.

Moravia, 5 novembre 1975

A cui fanno eco le parole di Cesare Viviani quest’anno:

Si è detto che la poesia è anche, immancabilmente, esperienza del limite, limite che è già inizio dell’estraneità, e quindi illeggibile, insuperabile, non c’è parola, intuizione, simbolo o immaginazione capaci di farlo nostro o di ridurlo. È l’equivalente del limite ultimo della vita: in questo senso la poesia è vita, e non limitazione di essa. […] La poesia è finita. Prima era essere che aveva le vertigini di fronte ai suoi limiti, era essere e non essere. Oggi è un intruglio bastardo di essere e superessere. Diranno in coro: sarà finita la tua poesia, ma la nostra no! […] Prima i poeti che mostravano notevoli qualità riconosciute erano cinque o sei per generazione. Adesso sono cinquanta, tutti meritevoli della stessa attenzione. Altro che livellamento, altro che appiattimento! Non si vuole più distinguere tra poesia e versificazione. È il sottobosco (così lo si chiamava) che si è costruito fusti e rami alti e spaziosi!

Cesare Viviani, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… (Melangolo 2018)

Frase che comunque va letta in relazione a un Eliot del 1925:

Se badiamo alle grida confuse della critica dei quotidiani e agli echi della voce popolare che le ripete, udiremo nomi di poeti in gran numero; se non cerchiamo di conoscere il Libro Azzurro, ma le pure gioie della poesia, se chiediamo poesia, ne troveremo ben pochi.

T.S. Eliot, Il bosco sacro, 1925

E, volendo, anche in relazione a un saggio di Guido Mazzoni del 2017:

Un io che coincide con la persona che mette la firma sulla copertina del libro racconta frammenti di esperienza soggettiva in uno stile che vorrebbe essere soggettivo, cioè distante dal grado zero della comunicazione ordinaria. Ma nei testi che non hanno forma lirica (nelle poesie dall’andamento narrativo, saggistico o teatrale, per esempio, oppure in ciò che viene chiamato post-poesia) l’egocentrismo è altrettanto pronunciato, perché si trasferisce nello sguardo e nello stile, e prende la forma dello straniamento. Questo rapporto organico con la soggettività come contenuto e come forma dell’esperienza fa della poesia l’arte più praticata, il primo medium dell’espressivismo dilettantesco e della creatività generica. […] Gli altri ci interessano soprattutto in quanto specchi, likers, casse armoniche della nostra storia: quando è il loro turno di esprimere la propria differenza soggettiva, il discorso che tengono non ci interessa quasi mai, perché dà voce a un’idiosincrasia solo privata, non evoca nulla che sia comune a tutti, ci annoia. È la logica della società del narcisismo, certo, ma anche di ogni vita sociale. […] La cultura contemporanea vive una doppia tragedia. La prima è quella descritta un secolo fa da Simmel: la modernità fa crescere lo spirito oggettivo, la quantità di conoscenze, la divisione del lavoro intellettuale, mentre la capacità di assorbimento di una singola vita è limitata; di conseguenza la cultura complessiva diventa sempre più vasta, mentre le opinioni degli individui sulle questioni generali sempre più approssimative. […] Nelle società contemporanee sovrappopolate, altamente differenziate, abitate da un numero crescente di individui e di opinioni, questa doppia tragedia produce l’odierno assetto discorsivo: un proliferare di nicchie specialistiche intorno a un centro mainstream fatto di contenuti intellettualmente poveri. Per descrivere questo centro torna utile rianimare la metafora morta del minimo comun denominatore. Non è un sistema di valori complessi ma ciò che rimane all’intersezione delle nicchie: mitologie globali, frasi fatte, idee comuni, cazzate.

Guido Mazzoni, Sulla storia sociale della poesia contemporanea in Italia
su Ticontre. Teoria testo traduzione (VIII, 2017).

Inutilità, altro termine che abbiamo molto dimenticato. Quanto è utile quello che abbiamo fatto nel 2018? Non dico a noi stessi, ma al mondo? Abbiamo lasciato un segno? Un valore aggiunto? Abbiamo migliorato qualcuno o qualcosa?

 

Personalmente il 2018 mi ha lasciato una lezione importante: ho imparato a fallire. Non dico il fallimento di un’attività, di un’opera, ma di un atteggiamento. Tendo infatti a cercare di aiutare, nella misura delle mie possibilità o nel mio ambito, chi incontro. Spesso peccando di presunzione. E non di rado prendo atto dell’attrito che nasce tra la visione delle possibilità di una persona e quello che la persona effettivamente vuole. In questo le persone sono buffe, spesso vogliono cose sulla base di analisi molto blande, superficiali, un po’ alla Noia di Moravia.

Cecilia infatti è uno dei personaggi, pur appartenendo al 1960 (con i criteri odierni praticamente tre ere geologiche fa), che oggi torna prepotentemente alla ribalta come chiave di lettura per molti atteggiamenti. Più ancora del Tomáš di Kundera. E per comprenderla dobbiamo necessariamente tornare all’abbattimento della causa-effetto di cui sopra.

Imparare a fallire diventa in altre parole imparare ad accettare l’altro con tutti i suoi (e nostri) limiti. Perché l’applicazione, quando si acquisisce la consapevolezza della sua importanza, pur essendo un dovere ha dei limiti che non coincidono quasi mai con la realtà, ma con la volontà. Che è molto aleatoria, precaria, miope. È come se la mente umana vivesse continuamente nella nebbia, in una propria nebbia, incapace di allungare la mano per vedere se ci sono altri esseri umani. O, quando lo fa (e qui il caso degli artisti e dei poeti), è solo per dire a chi incontra (a prescindere da chi è) vedi come sono bello? Intelligente? Fuori dagli schemi? Utilizzando però un linguaggio altrettanto aleatorio, precario, miope. E rientrando a tutti gli effetti nella tristissima casistica di quanti proclamano la mente è come un paracadute, funziona solo se è aperta solo per far ottenere risultati o obiettivi a persone che di aperto non hanno proprio nulla (se non i propri interessi).

La natura umana lo sappiamo è traditrice, autodistruttiva, edonista, manipolatrice tanto quanto è generosa, altruista, contraddittoria. Si innamora di un lato caratteriale che poi sarà la causa fondamentale della separazione (quest’anno ho visto due esempi di questo genere). Urla indignazione per il non riconoscimento o la negazione dei propri diritti e poi calpesta i diritti degli altri con sarcasmo e insulti. Ma resta ancora un margine, una zona d’ombra, dove attendere qualcosa. L’Artista, o il Poeta, che non sarà infarcito di belle parole né di facili concetti o esposizioni ma sarà l’applicazione di un’idea. Un’idea di uomo. Consapevole del contesto, abbastanza forte da modificarlo dal di dentro, abbastanza folle da farne parte nelle sue pieghe più basse indicando con il dito (il suo linguaggio) la possibilità del cielo. Un artista o un poeta che magari non sarà elevato ma potrà elevare gli altri.

 

Io sono profondamente convinto che i tempi siano maturi per una tale nascita. O apparizione. Molto meno per la sua ricezione. Ma proviamo a mettere a confronto due affermazioni di Viviani e Augé che parlano di supermercati in quanto non luoghi (tema anch’esso molto abusato perché facilmente maneggiabile):

Si è detto: la quantità ha spento la qualità. La quantità di internet, della ipercomunicazione pubblicitaria, dei supermercati, dei centri commerciali e di ogni tipo di esposizione e di vendita. Uno dei tanti effetti di distruzione provocata dall’alluvione continua della quantità è la scomparsa (o quasi) di quella sensibilità che faceva distinguere la poesia dalle composizioni in versi (non poesia).

Cesare Viviani, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… (Melangolo 2018)

 
 

Alcuni anni fa, ho utilizzato il termine non luoghi per designare quegli spazi della circolazione, del consumo e della comunicazione che si stanno diffondendo e moltiplicando su tutta la superficie del pianeta. Ai miei occhi, questi non luoghi erano spazi della provvisorietà e del passaggio, spazi attraverso cui non si potevano decifrare né relazioni sociali, né storie condivise, né segni di appartenenza collettiva. […] Questa definizione di non luoghi ha però due limiti. Da una parte, è evidente che una qualche forma di legame sociale può emergere ovunque: i giovani che si incontrano regolarmente in un supermercato, per esempio, possono fare di esso un punto di incontro e inventarsi così un luogo.

Marc Augé, Corriere della Sera, 12 luglio 2010

Se volessimo restare all’interno della metafora del supermercato, che si presenta come una cassa di risonanza che tutto riflette e confonde (si pensi ad esempi a quella straordinaria immagine creata dal film Annihilation di Alex Garlan del 2018), nel confronto fra le due affermazioni emerge comunque una possibilità, un’opzione. Che è l’adattamento. La capacità di abituarsi a una data realtà (anche se nociva) e di evolverla naturalmente verso qualcosa di positivo. Il che, in buona sostanza, è una delle possibili definizioni di applicazione di cui sopra.

 

Alessandro Canzian