Si è conclusa come è iniziata, magnificamente. Ritratti di Poesia è un appuntamento che da 17 edizioni ormai resta fedele al suo essere un osservatorio di quel che accade in poesia, riducendo al massimo possibile la scelta personale pur mantenendo una direttiva che predilige la qualità. Di questi tempi certo la domanda può essere: qualità secondo chi? Che è sostanzialmente l’argomentazione madre di chi contesta questa e altre manifestazioni importanti.
Qualità secondo chi? Secondo il comitato preposto a decidere. Possono avere ragione? Possono avere torto? Sicuramente si e si, ma l’approccio corretto alla domanda, che vediamo reiterarsi più o meno elegantemente in diverse forme in questa e altre occasioni, non parte dalla domanda stessa ma dalla constatazione dei soggetti che la pongono.
Non è cosa difficile da verificare: il detrattore tipo è colui che non è stato (ancora, data la regola del una sola volta) invitato nel caso di Ritratti di Poesia, o non è mai stato o non è più stato invitato come nel caso di Pordenonelegge. Con la curiosa conseguenza di un netto cambio di posizione in caso di invito. Si potrebbe quasi redigere una vera e propria fenomenologia dell’autore, del poeta. Come si comporta, cosa vuole, come reagisce all’attenzione (perché di questo si tratta quando si parla di invito) e come al rifiuto. Ne verrà fuori un vero e proprio identikit con poche declinazioni, poche diramazioni dell’albero caratteriale umano.
Perché? Perché oltre all’impoverimento del linguaggio (in rete si trovano diversi articoli sul tema, tra tutti suggerisco questo: Quanto incide il linguaggio nell’intelligenza di Paolo Di Stefano, che fa riferimento a Christophe Clavè, che curiosamente si può leggere qui: L’impoverimento del linguaggio diminuisce la capacità di formulare pensieri complessi – dico “curiosamente” perché il sito è lamiafinanza.it, ovvero un noto e importante sito di finanza, ambito dove l’impoverimento del linguaggio è una norma strumentale nei casi migliori), che ha la sua più eclatante dimostrazione nell’impoverimento della cultura politica del nostro paese, ci siamo impoveriti anche nella complessità, in quel che vogliamo e nelle sfumature di quel che vogliamo e possiamo essere.
Siamo diventati più semplici. E il poeta (o il suo tentativo) ce lo dice suo malgrado.
Mi dai attenzioni: sei una bella realtà. Non mi dai attenzioni: non vali niente. A ben vedere questa affermazione è tanto banale quanto vera. Alcuni direbbero comprensibile ma solo fino ai 18 anni (e Croce mio spostati). Ma perché il poeta ha bisogno di tante attenzioni? Tanto da elogiare o insultare eventi e occasioni, premi, recensioni secondo l’esclusiva relazione che questi hanno con lui?
La vecchia favola di Esopo parla di una volpe che disprezza l’uva a cui non arriva. Ma è veramente buona quell’uva? O è una semplice insegna da rincorrere senza soluzione di continuità?
*
Ci sono molte definizioni di poesia, e come in tutte le cose quanto più nebulosa e parcellizzata è una realtà tanto più la si definisce. Sarebbe facile parlare di poesia come di una profezia del domani, di una mistica da cui veniamo e a cui torniamo per nutrirci d’amore, ma ha senso? A vedere eventi di successo come quello appena concluso, Ritratti, direi di no. E non perché non siano stati letti testi di indiscusso valore (Longley, Nooteboom, Søndergaard, Stomina, Wagner, Italiano, Raimondi) ma per la domanda fondamentale che non bisogna mai dimenticare di porsi è: perché?
Vincenzo Mascolo e Carla Caiafa a Roma fanno un lavoro eccellente, ma perché lo fanno? La risposta veloce è perché è necessario un momento di testimonianza e riflessione sul tempo attuale. La risposta più lenta e riflessiva invece deve necessariamente passare attraverso l’osservazione del pubblico, dei fruitori. Uno dei grandi malintesi degli eventi di poesia è che questi vengono intesi come vetrine, palchi. Faccio l’Editore da 16 anni, per alcuni bene per altri meno bene, e ho imparato che l’evento vero non coincide mai con i 15 minuti di lettura. Non è su quella sedia, su quel palchetto. È negli incontri tutto attorno, nelle discussioni a cornice, nelle prospettive che si vengono a creare nel momento in cui le si vogliono creare. La sedia, il palco, sono solo espedienti per qualcosa di più grande e importante.
Chi mi sta leggendo sono certo ha già un’obiezione in punta di lingua. E ha assolutamente ragione. Non sto parlando dei semplici uditori agli eventi di poesia ma dei poeti che vi accorrono. Andrebbero fatti due discorsi distinti, due motivazioni, due dinamiche distinte: uditori non scriventi e uditori scriventi. Salvo poi prendere atto che il 99% dei fruitori degli eventi di poesia sono scriventi, a loro volta poeti, tentativi di poeti.
È mio interesse però restare sullo scrivente perché una delle cose che più trovo fastidiose di lui, quando si approccia agli eventi, è una frase che avrò sentito decine e decine di volte: vado se mi invitano. Con la tragica conseguenza di non presentarsi laddove non è stato invitato. Non dico quei viaggi della speranza (per non dire senza speranza, perdonatemi l’ironia) a cui è solito esporsi un Editore, o di quei viaggi particolarmente dispendiosi (ma insomma, non sono poi così tante le occasioni del settore a cui vale la pena presentarsi) che pochi possono permettersi. Parlo dell’evento in città, quello a cui puoi partecipare ma non vuoi perché non hai un interesse diretto e finalizzato alla tua visibilità.
Un interesse personale, non abbiate paura di ammetterlo, e questo crea un’altra categoria di persone che sono lì per semplice status symbol. Tutti abbiamo un interesse personale, la qual cosa potrebbe non essere nemmeno sbagliata se confinata e contestualizzata in un comportamento ben più ampio, più concreto o addirittura nobile.
Invidio quell’amico che mi stupisco di vedere lì e al quale ne chiedo il motivo. Mi risponde: sono qui per amore. È una cosa bellissima.
*
Ma a Ritratti è passata, come sempre, dell’ottima poesia (a tal proposito guardate la registrazione su Raiplay – a 1h e 50 min circa della prima parte inizia l’incontro con Vincenzo Della Mea, Clone 2.0, Samuele Editore-Pordenonelegge, 2023, collana Gialla – mentre a 4h 08 min circa sempre della prima parte Matteo Bianchi presenta la nostra rivista Laboratori critici, Speciale Ritratti di Poesia 2024).
Saggio sulle zanzare
come se d’un tratto tutte le lettere
si fossero staccate dal giornale
e stessero come sciame nell’aria;
stanno come sciame nell’aria,
senza dare neanche una cattiva notizia,
muse precarie, scheletrici pegasi,
bisbigliando solo tra sé e sé; fatte
dell’ultimo filo di fumo, quando
la candela si spegne,
così leggere che non si potrebbe dire che siano,
paiono quasi delle ombre,
proiettate da un altro mondo nel nostro;
ballano, più sottili
di un disegno a matita
gli arti; minuscoli corpi di sfinge;
le stele di rosetta, senza stele.
Jan Wagner, da Variazioni sul barile dell’acqua piovana (Einaudi, 2019, traduzione di Federico Italiano)
Lunga un’estate la spiaggia di ciottoli
dal Capo di Milazzo fino a Tindari,
anni ottanta, mio padre che si abbronza
e cambia accento.
Ci vieni incontro galleggiando, argentea
come un’offerta, leggera sull’acqua
come un miraggio, robusta e porosa
come un enigma.
Nuotatrice portentosa, miracolo
acquatico che merita un vangelo,
ruvida spuma di vetro vulcanico,
figlia del magma,
perdona il nostro affronto – l’ordinario
bagagliaio di un’Audi, l’autostrada
rovente, l’infamia sulla ceramica
bianca del bagno.
Federico Italiano, da La grande nevicata (Donzelli, 2023)
Il girasole
Lettera non spedita
Dedicata a mio marito Dmytro Paskalov
Amore mio, tu vivi a febbraio e io a settembre,
da quando fra noi una voragine si è aperta.
Passano fragorosi giorni, allarmi, persone,
scorrono fra delusione e disperazione.
Ma fra noi due c’è “il nulla” come sempre
che può frangersi, perché di vetro sembra.
Questa strada è troppo lunga e dolorosa,
troppa è la distanza, vacilla il pavimento,
ma io insisto a fare incantesimi per te, vivo,
bacio tenacemente i tuoi occhi pensosi.
È da una eternità che supplico Dio
di stare dalla nostra parte in questa guerra.
La distanza fra noi nelle insonnie è misurata,
nelle cicatrici sul cuore e nelle tempie imbiancate,
ma il girasole della speranza, brillante e forte,
fiorisce, e protende ancora al cielo le foglie,
come quello che cresceva sul mio poggiolo.
Presto tornerai, amor mio, e lo vedrai da solo!
Oksana Stomina, da Lettere non spedite a cura di Andrea Garbin (Gilgamesh Edizioni, 2023, traduzione di Marina Sorina)
Ed è
Quanti giovani governerebbero
la vita sulla tavola da surf da virtuosi
la schiena stabile sull’ipotenusa
l’anima ormai alla libertà adusa…
di raggiungere la cresta dell’onda speranzosi
verso il futuro
e ascoltando il sogno, la nebbia si infittisce
la benedizione dei druidi bruisce
nelle vene ovunque si leva
il fumo d’incenso della preghiera
e in qualche altro canto
il Signore raduna la sua schiera
Ouni Mikael Inkala, da Geenihymni (2023, inedito in Italia, traduzione di Antonio Parente)
E sono passati discorsi importanti come la programmazione di lit-blog, di uscite editoriali, di indirizzi di un mondo tanto liquido quanto vario. Si è parlato, tra le sedie dell’Auditorium e le panchine in cemento di via della Conciliazione di poesia visiva, di Govoni, di critica, di quale sia la relazione tra domanda e offerta nell’editoria di settore e se esiste in fondo una vera e propria domanda, e se si chi è che concretamente la pone.
Per gli autori la poesia è un genere da donare al mondo, soprattutto se sopra c’è il proprio nome. Per un Editore è un costo che implica varie valute (soldi, tempo, immagine, relazioni) e non di rado una perdita. È troppo facile parlare del caso Arminio e della semplificazione che tocca il cuore, o la pancia se si vuole. Chi produce Arminio? Un Editore che lo pubblica o un pubblico che lo compra? Ma se il pubblico della poesia è fatto esso stesso di poeti (quanto mancano i tempi in cui l’attesa del piacere è essa stessa piacere…) allora ne consegue che sono i poeti a creare Arminio. Ma tutti schifano Arminio che eppure vende, e vende bene. E il poeta in quanto tale si arrocca quindi nella sua battaglia già persa ma nobile per dire che esiste, che anche lui ha voce, una voce migliore, che lui è diverso.
Voglio semplificare un poco la filiera editoriale: l’Editore cerca, incontra, trova un’opera. La lavora, la stampa acquistando le copie da un tipografo, le da al distributore che si mangia dal 60 al 70% del prezzo di copertina, questo le porta in libreria o le rende comunque disponibili. La libreria vende. Sembra una filiera del 1980 vero? Eppure in tempi in internet, un internet consolidato da due decenni almeno, è ancora così. Salvo Amazon, che ti porta il prodotto a casa ogni giorno dell’anno, domeniche comprese, il giorno dopo l’acquisto mettendo a sua volta in crisi il comparto editoriale.
Torniamo al discorso della domanda e ribaltiamolo. Se ci è difficile identificare dove parte la domanda forse possiamo cambiare approccio, punto di vista. Lo faccio spesso con mio figlio per abituarlo a pensare fuori dagli schemi (beh… ha diciassette anni… per ora abituarlo almeno a pensare…). Chiediamoci quindi chi ci guadagna. Non ci vuole una cima per capire che è il soggetto che mangia il 60/70% del prezzo di copertina: la distribuzione. La realtà di oggi, che abbiamo voluto, che abbiamo costruito, che continuiamo a volere e costruire, è semplicemente una realtà commerciale che si basa sul fatturato. Un’industria.
E a questo puntano i poeti: un’industria basata sul consumo. Nulla di nobile, di poetico, solo numeri. Poi ci sono gli Editori che riescono a equilibrare gli elementi facendo un buon lavoro in linea con la propria identità e, mi si consenta, nonostante i poeti.
*
Mi rendo conto che in questi pensieri in libertà ho parlato poco di Ritratti e più di poeti o, come mi piace definirli in questo consumismo letterario, tentativi di poeti. Perché Ritratti è, come altre manifestazioni, sempre e comunque una conferma e negli anni probabilmente, come è naturale che sia, evolverà, tenterà nuove strade, oppure rimarrà fedele a un’idea originaria continuando a stupire come nelle ultime 17 edizioni. Con persone che vengono e non vengono, che elogiano e che insultano, che cambiano idea, che si mostrano, che si incontrano.
Quello che mi rimane di questa edizione è Oksana Stomina, bella e forte nella sua voce arrabbiata che non possiamo capire perché non abbiamo più quella storia, anche se facciamo finta di capirla. Mi rimane Dino Ignani a cui voglio molto bene, Matteo Bianchi che con Paolo Febbraro e Alfonso Berardinelli fanno una foto giocosa, Vincenzo Della Mea che parla di poesia, di linguaggi e IA e finito il pranzo perde la moglie e si preoccupa (ma lei era andata, semplicemente e meravigliosamente, solo in bagno). Ma soprattutto mi restano due fatti accaduti la sera, al ritorno.
Avevo lasciato l’auto a Mestre per poter prendere due frecce, andata e ritorno, per risparmiare un poco. Avevo parcheggiato lontano dalla stazione e alle undici e mezza di sera, con le gambe a pezzi dalle camminate romane, mi sono diretto verso il parcheggio dove ho incrociato, a dire il vero dall’altra parte della strada, un tizio che non conoscevo. Avevo le cuffie e ho sentito a malapena che mi stava urlando. A mia volta, da buon friulano, gli ho urlato “che vuoi?”. Questo, bestemmiando ampiamente, m’ha mandato a quel paese dicendo che ero solo uno schifoso razzista e per questo non gli rispondevo. Al che, sempre da buon friulano, a mia volta gli ho urlato che era buio e che per me poteva anche essere verde perché non lo vedevo (in effetti era solo una sagoma all’altro lato della strada, e probabilmente ubriaco). E me ne sono andato. Ammetto, guardandomi spesso indietro per controllare che non mi corresse dietro a picchiarmi. La qualcosa gli sarebbe, con tutta evidenza, riuscita benissimo.
A casa, poi, verso le due di notte mi scrive un autore (cosa molto normale dopo gli eventi importanti, ovvero quando vedono quello che fai) che non ho mai incontrato ma che conosco online da anni, e di cui ho anche apprezzato e apprezzo onestamente i versi. Ha una tenuta del verso e una coesione formale che mi piace molto. Ma in altri tempi abbiamo tentato una pubblicazione non conclusasi (in maniera tra l’altro comprensibile, nel senso che non critico l’autore per la sua scelta) a cui però sono seguiti spiacevoli insulti da parte dello stesso. Nulla di grave, le relazioni umane sono fatte anche di questo e le necessità non sempre si intersecano bene.
Resta che questo autore, alle due di notte, riappare (come altre volte negli anni) e gli confermo la mia profonda stima per quel che scrive addirittura, come altre volte, confermandogli che meriterebbe una posizione in collane di rilievo. Anche se ero stanco morto volevo dare corda, gentilmente (non sempre lo sono stato o lo sono nella mia vita, la qual cosa fa molto sorridere alcuni miei collaboratori e collaboratrici, soprattutto quelli che mi assomigliano molto più di quel che vorrebbero, ma che si autocensurano continuamente), memore di quella persona che a Mestre mi aveva bestemmiato contro per la mia non risposta iniziale.
Ho però anche confermato il mio non desiderio di porre sul tavolo un’ipotesi editoriale, nonostante la sua assicurazione che avremmo perfino scritto nel contratto che non avremmo litigato. Insomma, pur avendolo trattato con gentillezza questi sono alcuni dei messaggi che nottetempo mi ha mandato (per non tediare il lettore ne copio-incollo solo una piccola parte):
Sei davvero una brutta persona
E anche poco pulita
Sei cattivo dentro
Al che gli ho fatto notare che era lui che stava cercando me, e che non serviva arrivare a quei toni che sono molto controproducenti per la sua stessa poesia, concludendo con un “prova con altri editori, ce ne sono tanti”.
Tu godi nel fare questo che fai. Fatti curare, nel corpo e nella mente.
Ti stai già decomponendo, vedo
Quelle orribili macchie che hai in faccia e i capelli da strega.
Stai anche ingrassando…
Levati definitivamente dal cazzo, buffone.
Sei misero. Ecco. Ammazzati
Mostro. Tu la dignità te la si legge nella tua faccia deturpata. Nei tuoi capelli da vecchio. Nella tua faccia sformata
Quello che sei dentro ce l’hai nel corpo
Sei davvero brutto dentro e fuori
Questo può essere visto come un caso un po’ limite ma non lo è. È la dimostrazione che i poeti non sono la poesia, che spesso gli autori hanno ambizioni e modalità controproducenti che limitano le loro stesse potenzialità. Che il valore viene annichilito dall’intenzione, soprattutto quando è miope. In 16 anni di Casa Editrice l’ho visto accadere decine di volte. Persone di valore che hanno una sovrastima di sé tale che poi si declina in orgoglio, in aggressività, in piccoli grandi dispetti fatti alle spalle. Avere la visione del testo al posto del sé non è facile, del lavoro al posto del palco ancora meno. E la cosa è sempre e comunque identica a sé stessa.
Questo è anche il coraggio di Carla e Vincenzo che immagino di questi incontri problematici ne abbiano a vagonate. Ed è la poeticità inconsapevole e probabilmente ubriaca di quella strana sagoma bestemmiante che, con una propria disperara vitalità, affermava il colore della sua pelle che io comunque nel buio non avrei potuto vedere.
Come in un film di Godard.
Magnifico !
sembra un racconto nelle prime posizioni delle classifiche di vendita;
una lunga poesia;
una lettera;
una preghiera;
un urlo di dispiacere;
un inno
affinché
si maturi…
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