Un’intervista di Roberto Lamantea ad Alessandro Canzian sulla sua recente pubblicazione “In absentia” (Interlinea, 2024). Quest’intervista riprende e amplia, per gentile concessione di Giovanni Fierro, un dialogo precedentemente pubblicato su Fare Voci.
Roberto Lamantea: “In absentia” s’interroga su temi come Dio, la storia, la guerra, ed è inevitabile leggere il libro anche alla luce dei conflitti in corso, Ucraina e Gaza: non cronaca ma simboli. Lo sguardo sulla storia, sull’uomo, su Dio, è desolato: è così?
Alessandro Canzian: È sempre un po’ rischioso che chi ha scritto un’operetta in versi ne tenti la spiegazione. Perché in fondo è già tutto scritto lì, quanto di consapevole e di inconsapevole. Lo “strumento” poesia ha questo di affascinante: è aderente e intrecciato al nostro essere persone che, in quanto vive, sono obbligate a osservare il mondo. Ma lo strumento ha dei bordi non proprio così netti, anzi sono un po’ vaporosi un po’ sfilacciati. E in quei bordi ti rendi conto esserci altro. Un’intuizione? Un desiderio? Non lo so. Motivo per cui cerco di rispondere alla tua domanda avvisando subito di questo limite: l’autore è sempre un pessimo lettore di sé stesso (e quando invece non lo è, allora forse è un pessimo autore).
“In absentia” parla di guerra: si e no. Al terzo verso del primo testo accade la parola “bombardamenti”, e ti confesso io stesso mai avrei pensato di usarla. Ho litigato molto con quel termine perché noi, intendo noi italiani, non stiamo vivendo la guerra. La ascoltiamo dai media, dalle varie fonti, recepiamo quel che arriva nel suo essere sempre e comunque modulazione verso un effetto, un obiettivo specifico. Parla di Storia, questo è innegabile e forse con quest’abito mi sento un po’ più a mio agio. Che poi ci siano “pezzi” di conflitti attuali non lo posso negare: “La vita è sopravvalutata”, una chiusa, riprende fedelmente le parole di Vladimir Solovyov, giornalista russo, in televisione, a dicembre 2022. E così via dicendo, alcune sono segnalate in nota o da Martin Rueff, che ha curato la lettura critica, altre no.
Mi piace che usi il termine “simboli” nella tua domanda. Perché è un termine un po’ “romantico” per fissare dei concetti che nascono da ricorrenze, atroci ricorrenze. “Noi abbiamo fatto lo stesso / a Tripoli e Leningrado”, le parole di uno dei due soldati in “Sul fondo”, questo credo vogliano ammettere: la Storia continua a contorcersi su se stessa, gli uomini continuano ad essere sempre terribilmente identici nella propria violenza. Che non è violenza personale perché questa accadrebbe di rado, per sbaglio. È natura, perché ci accompagna e ci denota fin dall’inizio dei (nostri) tempi.
Quindi si, lo sguardo è desolato, sconfitto, sconfitto anche nella speranza. Che però, a una lettura postuma, mi pare resista ancora.
R.L.: «La storia accade / ma non se ne ha memoria»: mi vengono in mente versi famosi di Salvatore Quasimodo: «Sei ancora quello della pietra e della fionda / uomo del mio tempo». Il tema della guerra attraversa tutta la letteratura, dai miti antichi, Omero, sino alle voci della Shoah: qual è il posto della poesia in uno scenario che spesso sembra togliere ogni speranza?
A.C.: Oggi, per noi italiani, nessuno. In altre parti del mondo la letteratura è resistenza civile, è scontro, noi facciamo le raccolte di poesie contro la guerra dove c’è posto per ogni voce, per ogni autocompiacimento. Vogliamo pensare che la poesia smuova gli animi? Che aiuti le “resistenze” e le “umanità”? Non qui da noi. Durante la seconda Guerra Mondiale sappiamo molti soldati portavano nello zaino “Le occasioni“ di Montale, pubblicato nel ’25 (e siamo ormai nel centenario, e in “Laboratori critici” stiamo preparando un “viaggio” dentro questo libro che io e il direttore responsabile Matteo Bianchi speriamo dirà molto). Oggi questo “trattenimento” non può più accadere perché noi, noi italiani, siamo anestetizzati. La consapevolezza, il saper guardare da più punti di vista, è diventata l’eccezionalità. La poesia è, appunto, uno “strumento” che si piega al suo utilizzatore.
La domanda successiva potrebbe essere: ma se lo “strumento” è diventato inutile, senza collocazione, perché piegato al suo utilizzatore, noi che siamo gli utilizzatori che utilità e collocazione abbiamo?
R.L: “In absentia” propone testi brevi di cinque/sei versi l’uno, composti tra il 2020 e il ‘24: qual è il tuo metodo di lavoro? I tuoi versi nascono di getto o lavori molto sulla scrittura, rileggendo fra tagli e riscritture?
A.C.: Il primo “gesto” credo sia comune a tutti: scrivere di getto. Che poi questo “gesto” sia una fermentazione di altro, e di un tempo più o meno lungo, direi è il minimo indispensabile. Successivamente, almeno per me, accade la lettura, la rilettura, la composizione di quella che può essere un’opera, i tagli, le ricomposizioni, i tentativi e i ripensamenti. Giusto per dare un dato che sia più veritiero di quel che possono essere le mie parole, nella cartella dedicata nel mio pc al momento esistono 191 versioni di “In absentia” dal 3 maggio 2022 alla data di consegna all’Editore. Considerando che mancano i due anni precedenti (ho cambiato pc) e che non di rado ho sovrascritto i file, cioè non li ho salvati con una data diversa perché le modifiche non mi parevano così sostanziali (punteggiatura, una diversa versificazione, un testo aggiunto), posso azzardare almeno il doppio di versioni rispetto a quelle che sono rimaste.
Di fondamentale importanza resta però il confronto “per strada” con alcuni amici. Tra questi Matteo Bianchi, che ti ho già citato, e Roberto Cescon. Confronto che serve a oltrepassare il sé e a rendere la poesia un po’ più “collettiva”.
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