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Canzian, la poesia cerca l’umano che è in noi lontano dalla “società dei topi”

L’autodeterminazione umana è capace di portare avanti nel contemporaneo la specie? Abbiamo bisogno di guide, umane o sovraumane (per chi è credente) in grado di condurci, magari con un occhio buono, misericordioso?

Ma se tutto questo non succede cosa accade? È questo il tema di fondo del nuovo libro di Alessandro Canzian che ci racconta uno scenario di apparente normalità: nemmeno lontano dai conflitti l’uomo in assenza di “misericordia” è in grado di sopravvivere. Ce lo spiega uno dei più famosi esperimenti del secondo Novecento, “Universo 25”, modello ipotizzato tra gli anni 60 e 70, dunque profetico, dall’etologo John Calhoun che ribattezzò come la “fogna del comportamento”, una società consacrata al collasso, fatta di persone paragonate a topi incapaci di attribuirsi spontaneamente dei ruoli sociali e destinati, anche di fronte alle condizioni più favorevoli, all’autodistruzione. Alessandro Canzian racconta figure umane che vivono della stessa fragilità senza causa apparente se non andando a puntare lo sguardo verso le storture e le contraddizioni della società.

La ragazzina a lato dei binari

con le calze smagliate e le

unghie scolorite domani

risolverà tutti i problemi

bevendo ammoniaca.

In una fase nella quale la mistica sembra avere preso il sopravvento, almeno nella poesia italiana, l’impianto di Canzian e la sua scena narrativa coraggiosamente si pongono nella direzione diametralmente opposta e con risultati anche dal punto di vista del linguaggio decisamente contro corrente: nulla di artificioso o semplicemente iper accademico ma vivo, umano, ascoltabile, visibile. D’altronde non mancano gli esempi anche all’interno delle Università italiane ed europee di docenti che hanno saputo con la propria poesia creare un luogo d’ascolto e di visione netta, percepibile anche da chi non vive gli ambienti d’élite, come Alberto Bertoni (che condivide con Canzian nei propri libri l’immagine dei topi), o Fabio Pusterla. Al centro della scena rimangono i fragili, identificati spesso in giovani figure femminili, le più esposte in un mondo che ancora non ha minimamente perso la volontà di vedere nella donna altro, oltre che un oggetto da consumare per i propri soddisfacimenti. L’immagine restituita è effimera, a causa dell’assenza, di un mancato sguardo, interesse, possibilità di essere altro rispetto al filtro, a una bellezza destinata presto o tardi a svanire.

Hanno spianato per chilometri

qualunque cosa viva

alberi compresi.

Conta quanti loro morti

valgono uno dei nostri.

In assenza di uno sguardo benevolo e superiore siamo tutti destinati a estinguerci e quello che oggi ci viene proposto non è nemmeno lontanamente sufficiente a rendere sensata la nostra vita. Affidarci alla mistica in questo senso conta poco, è l’uomo stesso a dover risolvere le proprie storture e dimostrare di essere diverso dalla società dei topi sazia e spaesata dell’esperimento di Calhoun. L’opera di Canzian, non solo in questo libro, sta facendo qualcosa di rarissimo in Italia: posa il proprio sguardo verso la terra, non verso il cielo e non verso se stessi, fotografando quello che accade nei nostri paesi, nei condomini, nelle case, puntando l’obiettivo sulle nostre ferite e le cicatrici mai sanate.

Avremmo (a mio avviso) molto più bisogno di preservare questo tipo di poesia piuttosto che consegnare alle stampe libri autocentrati, egoriferiti o volutamente criptici, catacombali: eppure le cose non vanno in questa direzione e a noi rimane lo smarrimento di quelle giovani donne che popolano l’opera di Canzian, di quegli abitanti di una terra talmente selvaggia che ogni possibile bontà o gentilezza ci appare tremendamente lontana, persa in una cattiveria consumistica che supera ormai la soglia dello stesso dolore.

Matteo Fantuzzi

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