In Absentia su Alma Poesia

«Ho interrogato Dio nello scarafaggio spezzato»: recensione a “In absentia” di Alessandro Canzian

di Sara Serenelli

In absentia di Alessandro Canzian (Interlinea edizioni, 2024) è una raccolta di versi che sin dal primo rigo pungola chi lo legge, come uno spillo, un ago, un chiodo. Sono versi che senza fatica si conficcano nella memoria di chi li legge, le cui immagini penetrano sin da subito sotto l’epidermide e non basta una sola lettura per dirsi pronti ad assimilarle tutte, per credersi capaci di aver compreso davvero, per apprezzarne valore, rilevanza, rimandi. A fronte di una immediatezza istantanea, che solo la poesia autentica possiede ed è in grado di trasmettere, c’è tutto un sottotraccia complesso, si badi bene complesso e non complicato, che rimanda a letture, autori, fatti della storia, che trascende, ed è egregiamente capace di farlo, la concretezza, la vividezza di talune immagini che ci sono poste innanzi, per condurci oltre, aldilà della coltre di suoni e di visioni che sono sulla superficie e che con la loro subitaneità ci percuotono. Sì. percuotono, perché nei pochi righi dei componimenti di Canzian, per lo più composti da quattro o cinque versi, viene condensato, addensato, rappreso, e potremmo arrivare a dire compendiato, un piccolo mondo ma con uno spiazzante e dissonante orizzonte di senso e di significato. E subitamente dopo essere stati percossi arriva il componimento successivo, che in un breve lasso di tempo, il tempo che i nostri occhi seguono l’andare delle righe, prima distende e poi batte, bastona, rastrella, sconquassa, arriva a lanciare la sua accusa, il suo rigetto, la crudità delle visioni. Un qualcosa che ci rimane indigesto perché sono versi che pungolano nei punti di sutura, rimuginano là dove invece vorremmo beatamente essere lasciati stare, nella nostra ipocrita superficie di non senso, non visto, non sentito. Arrivano le immagini nette: la ragazzina, il topo, un Dio che è assente, assorto, distratto, l’anziano, la bambina, i due soli dal finestrino del treno, le borracce, le lenzuola, la tovaglia, i cani e i loro latrati. C’è all’interno di questi brevi componimenti una spiccatissima drammaticità che mette in dialogo o meglio in contrasto i primi versi con gli ultimi. Le chiuse sono fortissime. Sottolinea Martin Rueff nella Nota posta a chiusura della raccolta I dispositivi poetici di Alessandro Canzian come l’ultimo verso sia «una punta o una caduta che riassume l’impressione generale, evidenzia un dettaglio contrastante o crea un effetto sorpresa basato su un rovesciamento», un dispositivo che, aggiunge sempre Rueff «cambia per così dire il sapore della poesia, l’adombra, le conferisce risonanze, spessore, drammaticità». C’è nel giro di pochi versi una dinamicità che porta da un’immagine, dalla vista nitida di una visione che il poeta ci pone innanzi, al rovescio spesso o alla condensazione di questa visione, ci porta dentro, ci porta nella drammaticità di queste immagini, nella loro spinta poetica, e la chiusa poetica le amplifica e nel farlo le rende memorabili per chi le legge.

 

Il respiro scoppiato per caso

tra scapole e strade.

L’uomo è un ramo

che si spezza facilmente.

 

*

 

Anche Dio creò il mondo

in sette giorni

prediligendo la notte.

Anche Dio

è scuro come un topo.

 

*

 

Io non credo possa finire

nell’attimo in cui lo uccidi.

Siamo borracce noi stessi

da cui qualcun altro beve.

 

*

 

La ragazzina scorre disinvolta

i giardini di tutta Europa.

E Ucraina e Polonia.

La vita è sopravvalutata.

Le chiuse di questi componimenti chiudono il cerchio di significato e anzi lo amplificano, lo distorcono, lo rilevano con tragicità e talvolta con tenerezza. Nello sviluppo drammatico dei versi, Canzian è in grado di ribaltare il significante e il significato, il poeta tende il contenuto e ce lo porge innanzi slabbrato per vedere meglio tra le fibre, per comprendere davvero l’ordito, per scorgere a una distanza ravvicinata la trama del tessuto che va tessendo. Rueff parla di «tensione commovente» e non si può non essere d’accordo con lui. In ogni componimento, in ogni dispositivo poetico, Canzian riesce a connettere, a fondere, a legare inscindibilmente elementi concreti, materici, immagini vive anche quotidiane talvolta massimamente tragiche a un significato altro, metaforico, anaforico, figurato, traslato, simbolico. E lo scarto nei passaggi è celere quanto ben architettato, è in quel passaggio dalla immagine concreta presentata per prima, al senso altro che il poeta le attribuisce che sta la forza di questa poesia: è lì che Canzian tende l’arco e scocca la freccia.

Questi componimenti-freccia sono suddivisi in tre sezioni, ciascuna delle quali preceduta da un componimento-esergo in apertura posto in risalto mediante l’uso del corsivo. Le tre sezioni, Minimalia, Sul fondo e In absentia hanno una titolazione particolarmente significativa ed evocativa. La sezione omonima del libro in particolare pone l’attenzione sul tema dell’assenza, della mancanza, di una amputazione. Ma cos’è che è assente, cosa mancante o amputato? Cosa non torna? Mi sembra che l’assenza più ingombrante e più assordante sia quella di Dio: un Dio che si nasconde, non riesce a palesarsi, sfugge al richiamo dei suoi figli, figli abbandonati, lasciati in balia di un mondo doloroso e crudele, un mondo che non li accoglie e che fanno fatica a comprendere del tutto:

 

Ubriaco la maggior parte del tempo

ho interrogato Dio

nello scarafaggio spezzato.

Lui ha confessato d’essere

solo un buio, uno sbaglio.

 

*

 

Dio il secondo giorno venne

a pugni chiusi a battersi

fra le tende. Era un Dio

vendicativo e geloso

dell’amore gettato

ieri accanto a un braccio.

 

*

 

Il terzo giorno non era più

Lui. «Non chiamarmi

Dio né uomo. Ogni respiro

è una vita che non sa».

 

Chiude la raccolta un componimento potentissimo che in qualche modo potremmo definire di compendio a tutto il reticolo della raccolta: è una chiusura tragica, attenta, densa di piccoli particolari che danno respiro alla brevità del giro di versi. È nel segno dell’assenza estrema, dell’assenza più pesante che si chiude la raccolta di Canzian:

Ogni giorno m’interrogo

sui corpi di mosca caduti.

Un nido di topo già morto

non fa primavera, Dio

è un sinonimo di mai.

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