Valerio Magrelli
da Ora serrata retinae
(Feltrinelli 1980)
Molto sottrae il sonno alla vita.
L’opera sospinta al margine del giorno
scivola lenta nel silenzio.
La mente sottratta a se stessa
si ricopre di palpebre.
E il sonno si allarga nel sonno
come un secondo corpo intollerabile.
Essere matita è segreta ambizione.
Bruciare sulla carta lentamente
e nella carta restare
in altra nuova forma suscitato.
Diventare così da carne segno,
da strumento ossatura
esile del pensiero.
Ma questa dolce
eclissi della materia
non sempre è concessa.
C’è chi tramonta solo col suo corpo:
allora più doloroso ne è il distacco.
Domani mattina mi farò una doccia
nient’altro è certo che questo.
Un futuro d’acqua e di talco
in cui non succederà nulla e nessuno
busserà a questa porta. Il fiume
obliquo correrà tra i vapori ed io
come un eremita siederò
sotto la pioggia tiepida,
ma né miraggi né tentazioni
traverseranno lo specchio opaco.
Immobile e silenzioso, percorso
da infiniti ruscelli,
starò nella corrente
come un tronco o un cavallo morto,
e finirò incagliato nei pensieri
lungo il delta solitario dello spirito
intricato come il sesso d’una donna.
Cè un momento in cui il corpo
si raccoglie nel respiro
e il pensiero si sospende ed esita.
Anche le cose
commosse dalla luna
subiscono il sospiro delle maree
o le flessioni dolci dell’eclisse.
E il legno delle barche
si gonfia nell’acqua delicato.
Ecco la lunga palpebra della donna,
il sopracciglio vasto che attraversa
il pensiero dopo la pioggia
e lo illumina. Il suo arco
misura nel silenzio la sera
percorrendo assorto
la chiarità curva del cielo.
Questa è l’ultima porta
d’un antico acquedotto di sguardi.
Come terreno calpestato, risuona
profondo, cavo e abbandonato
come terra scossa,
questo corpo chiaro di donna,
come un animale battuto, questa schiena
fatta lucida da mani silenziose,
come pietra levigata
dal corso d’altre pietre,
senza profumo e senza voce,
bocca consumata e debole
come una pianta troppo usata,
senza ombra, ovunque toccata,
ovunque percossa, campo desolato
senza erba e senza tracce, senza margini
come la dolorosaimmagine del cieco,
nuda e sospesa, raccolta
nel cerchio della solitudine,
questo è l’ultimo frutto dell’amore
che per sé trattiene soltanto
la disabitata povertà dell’osso.

Un bell’articolo: http://www.nuoviargomenti.net/poesie/valerio-magrelli-i-poeti-leggono-se-stessi-6/
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