La dirimpettaia e altri affanni
Silvio Ramat (Mondadori 2013)
Che il poeta sia spesso una figura un po’ borderline e controversa è cosa ben risaputa. Senza andare a disturbare un Petrarca che inizia il suo Canzoniere cercando di convincere il lettore di non essere un vecchio bavoso che corre dietro alle ragazzine, potremmo citare le ben note ossessioni familiari del Pascoli o l’altrettanto noto Verlaine che brucia i capelli della moglie. Sul più nostrano (almeno per me che sono di Pordenone, vicino a Casarsa) Pasolini c’è una bella poesia del Magrelli che dice: Avrebbe minacciato un benzinaio / Con la pistola carica / di un proiettile d’oro. / Cineasta e poeta, orafo e orco! / Ma cosa contestare a quest’accusa, / l’arma o la sua pallottola? / Cosa rivendicare, / Santa Romana Chiesa o l’usignolo? / Quel colpo mai sparato / traversa la sua opera / piegandola ad un duplice ossimòro, / fantastico fantasma / di violenza e pietà, / di sangue e alloro.
Così anche borderline si può considerare un poeta che scrive una lunga poesia, quasi un poemetto, spiando dalla finestra una ragazza con un binocolo. Tolta la giustificazione letteraria parleremmo di un semplice guardone, cosa che evidentemente anche l’autore ha ben presente e motivo per cui non a caso avvisa che non m’importano / il fondo oscuro, i segreti d’alcova, / non inseguo impreviste nudità, / ma quel minimo, i gesti incalcolati / sugli oggetti semplici. Quasi che la poesia con la sua azione (ritualità?) conoscitiva in qualche modo sia giustificazione più che sufficiente per atti altrimenti considerati poco carini.
Nello specifico il poemetto è La dirimpettaia di Silvio Ramat, tratto da La dirimpettaia e altri affanni (Mondadori 2013). Un racconto in versi (tra l’altro con epilogo tragico) che pare quasi puntare alla vita d’un uomo (o meglio alla vita d’una donna) rifacendosi dichiaratamente a La finestra sul cortile di Hitchcock. Uno stile prosastico che punta moltissimo all’identificazione del poeta con i personaggi che man mano si affacciano al suo sguardo segreto. Sguardo testimone, inattivo, che non desidera altro che essere ancor più presente nella sua segretezza. Perchè tale segretezza diventa un atto di conoscenza per eccellenza, non solo della vita della ragazza ma anche di se stessi e del poeta in genere (Da egoista, / solo un poeta potrebbe gioire / di tante ore per sé, trovar l’ardire / per un poema nuovo).
Atto che trova la sua espressione migliore in una (appunto) prosa in versi che se da una parte caratterizza la voce dell’autore in questo libro (Ma se spesso apertamente prosastico è lo stile di Silvio Ramat in questa raccolta, non di meno sono presenti felici impennate liriche… dalla prefazione) da un altro punto di vista fa ben coincidere l’espressione con una sorta di prosasticità della vita della ragazza. Una vita sostanzialmente non lirica, non alta, anzi sfioratamente banale anche nel suo concludersi per assunzione di troppo sonnifero. Priva di vero pathos, ma non per questo meno vera. Infatti non a caso Ramat gioca la fine di ogni testo del poemetto con un azzeccatissimo refrain che focalizza tutta la sua efficacia attorno al termine mondo. Mondo che non è un’espressione geografica ma piuttosto temporale, esistenziale, non solo della sua vita ma della vita in genere. Un anello di congiunzione che universalizza ed eleva il quotidiano rendendolo una lirica parte del tutto. Dove il tutto è modificato dalla singola parte un po’ come nella farfalla di Lorenz. Modifiche che appaiono minime ma che in fondo portano a una morte. E la morte non è mai fine solo di una parte, ma del tutto.
Silvio Ramat pubblica con Mondadori un bel libro di poesie che lo conferma voce autorevole e ormai assodata della letteratura italiana (Ramat è del 1939). Anche se c’è da confessare che l’autore, come altri purtroppo, non si vede riconosciuto totalmente il valore della propria produzione per motivi che possono essere i più svariati. Tutti conosciamo i Milo De Angelis, i Maurizio Cucchi, i Davide Rondoni, meno conosciamo appunto i Silvio Ramat, i Giorgio Bàrberi Squarotti, forse anche gli Umberto Piersanti. Che le motivazioni siano di carattere identificativo, cioè che l’attività critica e accademica oscurino un po’ l’attività poetica, è cosa vera anche se non molto giusta. Così come è vero che forse questi autori, non più giovanissimi, non si sono inseriti in alcune politiche editoriali (alcuni direbbero settarie) che oggi vanno per la maggiore. Resta che esiste tutta una fascia d’autori eccellenti che, pur vivi, vengono forse considerati come appartenenti al secolo scorso. Pur pubblicando oggi. Pur essendo, lo ripeto, eccellenti.
La dirimpettaia
1
Arrivata da poche settimane
nella casa di fronte, sto osservandola.
Quanti anni avrà, la mia dirimpettaia?
Sui trentacinque, direi: quell’età
che da sempre mi affascina, perfetta
e irrequieta, già colma di memorie
a chi non le rifiuta, e nondimeno
con speranze fondate sui raccolti
che verranno. Ho l’intera domenica
più queste ultime briciole del sabato,
per intuire un po’ della sua vita,
palpiti suoni aure, mentre muore
un inverno con più fretta del solito,
ruota impazzita, il tempo, ch’è impossibile
tenere a freno. E lei, riesce a farlo?
Come ticchetta il tempo nel suo mondo?
2
Lei? Ma forse per lei gli anni si muovono
fin troppo a rilento, se intendo bene
quel che ora sta dicendo al cellulare
(«Non vedo l’ora che siamo a gennaio…»).
Dalla porta-finestra sul balcone
socchiusa mi arrivano in un riverbero
di luce estrema, dentro le parole,
nomi d’ignoti (lei li sta aspettando
di ritorno? Per quando? Una Roberta,
un Luigi), e un accento non previsto
di Toscana marittima (lo so,
siamo in molti i trapiantati quassù).
Anche lei dunque senza un suo dialetto.
Debbo tornare dentro, non vorrei
s’accorgesse di me, dell’indiscreto
a caccia di frammenti del suo mondo.
3
Mai distrarsi, se si può, da un tramonto.
E quello di oggi è una vòlta barocca,
una scena dipinta, senza il nero.
Breve, per fortuna, ché non vorrei
mancare adesso al mio nuovo soggetto.
Non la perdo d’occhio: su al quarto piano
non serve che si calino serrande
e io posso seguirla, nelle stanze
su questo lato dell’appartamento
(il lato sulla strada). Si riscuote
alla scampanellata, va alla porta:
è (lo avevo visto giù nella via)
il fattorino della pizzeria.
Paga, ritira quel che le si porge.
Tre confezioni, o quattro. Ci sarà
una cena e qualcuno del suo mondo.
4
La buona qualità dei serramenti.
Non mi arriva neanche il minimo aroma
dai due fornelli, dove è deliziosa
nell’affaccendarsi come ogni donna
esperta o no. Riempe le vaschette:
mandorle olive pistacchi nocciole
e altre ghiottonerie che fanno male.
Mi stupisco, m’intenerisco ai vermut
(credevo fosse roba d’altri tempi):
due bottiglie appoggiate, un rosso e un bianco,
sul carrello, qualche vino robusto
e altri liquori senza l’etichetta.
Grappe di straforo, chissà. O il ribaldo
fragolino… Ma ora il trillo del timer
la richiama, veloce, sui fornelli.
Nel cucinare, l’orma del suo mondo?
5
Hitchcock e La finestra sul cortile.
Un binocolo – vecchio, da teatro –
ce l’ho anch’io e, vincendo la vergogna,
stasera sto adoprandolo. Altrimenti
non saprò nulla di lei. Non m’importano
il fondo oscuro, i segreti d’alcova,
non inseguo impreviste nudità,
ma quel minimo, i gesti incalcolati
sugli oggetti semplici (così il vermut
e le altre cose allestite per gli ospiti
attesi a cena). Intanto parte musica:
un notturno di Chopin. Sono grato
alla mia dirimpettaia del dono
di dolcezza che m’invia senz’averne
sospetto. Che si questa la colonna
sono di un filmato del suo mondo?
6
C’è ancora musica, o vorrei durasse
nell’aria, mentre lei apre la porta
agli ospiti. Li ho veduti arrivare:
quattro, hanno parcheggiato sottocasa.
Tre donne e un uomo, l’anziano del gruppo
(sui cinquanta, o anche di più). Qualcuno
appoggia su una mensola pacchetti
ben confezionati, doni che dicono
di un compleanno, a giudicar dai fiocchi.
O forse no, è una sera come tante:
ci si fa compagnia, non è difficile
vincer la solitudine, purché
si sappia che è solo una cena e tutto
va a consumarsi in un breve arco d’ore:
un intervallo, un frivolo sbadiglio,
dopo di che la riassorbe il suo mondo.
7
Ma il più bel regalo, che non s’infiocca
né s’impacchetta, è questo anticipato
delinearsi della primavera.
Così, mentre la padrona di casa
apparecchia (per cinque), due delle ospiti
escono sul balcone: per fumare
(forse) e (certo) godersi il buon tepore
bagnato in alto da un quarto di luna.
Dall’interno sento chiamare: Ilaria!
Francesca! Meno male! Che peccato
se questo render-vous, gratificato
dalla luce lunare, avesse in campo
una Sabrina, una Deborah… È un attimo,
e apprendo gli altri nomi: Caterina
(la mia dirimpettaia), Umberto, Bianca.
Risonanze, figure del suo mondo.
8
Sorride, Caterina, di un regalo.
Accusa poi, reticente, la svista
del donatore: quel cd che spesso
la si sente canticchiare, lo aveva.
Ma, visto ch’è in mano sua, lo si ascolti.
Ecco, fiorisce il tema del Laureato.
Chi non l’ha familiare? E ora capisco,
dal mio distacco verso quella musica
pur così cattivante, il variare
del concetto di “antico”. Non è il “giusto”
né il “certo”. Per costoro, quarant’anni
sono abbastanza: quel motivo è “antico”
sine dubio, lo legano a un ricordo,
tutti e ciascuno, a un segreto, a una lacrima:
tutti a un colore a un viaggio a un amore.
Ciascuno vi riconosce il suo mondo.
9
Quel film, col suo motore conduttore
che li intenerisce, tutti e ciascuno,
rimanda più o meno alle giovinezze
dei loro genitori. Avessi avuto
più cedevoli, io, una madre e un padre
a quello struggimento che ti dà
un film anche in virtù delle sue musiche,
sarebbe come per me il riascoltare
il tema di Harry Lime nel Terzo uomo
o, più indietro, quello di Casablanca…
Ma di colpo cala ora la serranda,
l’ondata della intimistica piena
(loro, mia) s’interrompe. Vanno a cena
e nessun accompagnamento chiede
questo rito, nessun altro ricordo
emerso da lontano il loro mondo.
10
Niente trapela a me degli argomenti
dei conversari durante la cena.
Debitamente ne rimango escluso.
Ma quando escono, in cinque, sul balcone
si lì a un’ora – a fumare? Ad ammirare
una delle ultime lune d’inverno? –,
ascolto e un po’ capisco: hanno sparlato
di colleghi in ufficio, han messo a nudo
le pecche di un progetto e i promotori.
Poiché il discorso prosegue all’aperto,
fastidioso prolisso alle mie orecchie
di incompetente… Finchè Caterina,
anche se non è poi tardi, si mostra
impaziente di restar sola, affretta
i convenevoli, va congedando
i quattro testimoni del suo mondo.
11
Forse le manca l’aria, torna sùbito
sul balcone, all’orecchio il cellulare
o il cordless. Deve aver chiamato lei
e più che ascoltare sembra che voglia
parlar lei sola, troncando il discorso
di uno che è all’altro capo del filo.
Sento il nome, sento dire: Luigi,
bruscamente fra l’orgoglio e il fastidio,
e poi tornare in campo l’altro nome,
Roberta. È Roberta l’arroventata
materia del contendere. Domani
dovrebbe essere qui, con Caterina
(sua madre?), passar con lei la domenica.
E invece pare ci sia un contrattempo.
Questa volta Roberta non verrà?
A Caterina si ribalta il mondo.
12
Non le sarà facile prender sonno
con quel che le si agita dentro, stizza
e disappunto. Ha messo su altra musica
(Vivaldi?), a render, forse, più accettabile
la domenica: ormai giornata infausta
ma fino a poco fa limpida, attesa
dall’amor materno per darsi intero.
Luci spente adesso, spenta la musica.
Le auguro un buon sonno e che domattina
la sua giornata trovi altra pienezza
per quanto arduo le sia il compensare
l’assenza di Roberta. (Da egoista,
solo un poeta potrebbe gioire
di tante ore per sé, trovar l’ardire
per un poema nuovo o ritornare
sulle più vecchie carte del suo mondo).
13
Forse il sonno le ha ridato energie.
Altrimenti, suonerebbe più buia
e lenta la voce che ora dispiega
mentre scoccano le otto – domenica –,
il cordless bianco incollato all’orecchio,
pronte le dita a digitare un numero
e poi un altro e ancora un terzo. Amiche,
amici? La giornata è aperta, invasa
la vita da notizie della vita
che rumorose inondano le stanze.
Le parole di lei sento che adombrano
gite fuori stagione a fredde spiagge,
grigliate chi sa dove, bagni incerti
di sole marzolino. Ride forte
nel suggerire lo strano programma
a questi che son parte del suo mondo.
14
Tra poco, le dieci. Non invocata,
qualche nuvola insidia il bel sereno
delle ore prima. Lei però alle nuvole
non bada, se la scorgo accumulare
roba su roba in una borsa, chiudere
porte e finestre, scendere di corsa.
È già in strada, butta quel suo bagaglio
sul sedile di una Clio, ingrana, accelera
col giallo, curva a destra, ed è sparita.
Oblio sereno durante la gita
combinata così in fretta, le auguro
(ma ora io, come fantasticare
intorno a lei, fin quando non ritorna?).
Insonnolito cedo alla pigrizia
di metà mattina. Mi sveglia il suono
di una pioggia che invidia del suo mondo.
15
Nel temporale si respira prossima
la primavera. La mia noia accoglie
questa chiara avvisaglia. Avevo smesso
di pensare alla mia dirimpettaia,
ai suoi progetti che l’acqua invidiosa
avrà reso impossibili. Una Clio
parcheggia,lei ne scende senza ombrello.
Ma non da sola. Un uomo l’accompagna,
aspetto raffinato, età matura.
Colgo – mi par di cogliere – un’intesa
profonda negli sguardi che si scambiano.
Hanno sporte con bibite e vivande.
Se si tratta di amore, mi consola
che un uomo attempato possa riceverne
dalla sua giovane amica. Mi attento
quasi felice in questo loro mondo.
16
La pioggia e il resto invitano a calare
le serrade. Capisco. Nondimeno
mi rallegro, se la rosticceria
ha cucinato bene e il vino è adatto
a innaffiare quel frugale convito.
Parteggio per l’ignoto ospite, e sono
con Caterina, con lei che è riuscita
a ribaltare un’amara domenica
riconsacrando l’amaro in amore.
Sono con loro, egoisticamente,
vedo quel che non vedo: abbracci, fervide
confidenze. Il pomeriggio è lento
a passare. In me stesso mi concentro
come se fossi lui, in questa fortuna
che bacia il suo anagrafico declino.
Morte e Amore: «Due cose belle ha il mondo…».
17
Non ha finito la sua luce il giorno.
Le cinque, e tornano su le serrande.
Ha anche smesso di piovere, si aprono
i vetri delle stanze sul davanti.
Ne escono in due, coppia serenamente
affiatata, lo dicono gli sguardi.
Mi basta, non voglio sapere altro
di loro: se vi fosse già una storia
tra lei ventenne e lui forse alla soglia
dei cinquanta. Poco più che in bisbigli
vanno scambiandosi qualche segreto.
Nulla di nuovo, ma agli innamorati
piace ricantarsi quello che unisce.
Lei, alzatasi, asciuga sedie e tavolo,
dispone il necessario per il tè,
il rito di quest’ora in tutto il mondo.
18
Mi parevano in pace con se stessi,
quieti di un’esistenza sufficiente.
Ma quel prendersi il capo tra le mani,
lei, il tormentarsi un ciuffo di capelli…
Forse non era il tè il rito più adatto.
E lui, quell’impazienza repentina
che gli fa rovesciare la tazzina:
gesto da nulla, non tradisse pena
o fastidio. Già guasto il simulacro
d’armonia che io stesso mi godevo,
io, intruso amico della loro vita?
Non la luce soltando va sparendo?
Caterina ripensa alla domenica
quale doveva essere, votata
a Roberta? Rimpiange non sia andata
com’era convenuto? È strano il mondo.
19
Di colpo si alzano. Teiera e tazze
restano sul tavolino all’aperto.
Due avversari paiono, due nemici.
Guerra dichiarata con le parole
che io mi sono perso. In quale “mezzo”
stia la verità, chi potrebbe dirlo?
Si alzano anche le voci, rancorose.
Ciascuno addebita all’altro bugie,
inadempienze. Ora la porta sbatte,
dopo un istante il cancello, giù, cigola.
Lui è in strada, la fretta di chi evita
di sostare per un ripensamento.
Lei frattanto, rientrata, si dispera.
Piange, sebbene il cielo stia riempiendosi
di stelle. Non lo guarda, lei: una vòlta
deserta e cupa, tale è ora il suo mondo.
20
Il sole è alto. Lunedì mattina.
Quasi le undici. E quelle serrande
perchè ancora calate? Ah, ecco! No,
non lei, ma altri, estranei: cinque, sei
usciti sul balcone. Caterina:
di lei quelli ragionano, incuranti
di abbassare la voce. Ascolto anch’io.
Riferisce uno che a mezzanotte
la sua vicina l’ha sentita chiedere,
per telefono, di Roberta, invano.
Smaniava di parlare con la figlia.
Pochi passi di lì al bagno, a quei troppi
tubetti di sonnifero. La storia
è semplice, ma ci sarà un’inchiesta.
Rimugino su quel tè non goduto,
sugli amori di cui c’illude il mondo.
2009-2010

molto interessante
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È sicuramente un bel lavoro, qualcosa da cui imparare. Il limite è nella costruzione della storia: a me Caterina non sembra una persona vera ma un personaggio nella testa di Ramat, che segue i binari imposti dalla storia. A parte questo, ho apprezzato molto il tono piano e la pudicizia dell’autore nel non mettersi troppo in mezzo. E mi piace questo endecasillabo che non si percepisce neanche come tale, tanto è variato e sfumato in un’apparente prosa. La scansione in quadri tutti di sedici versi, la ripetizione di “mondo” nella chiusa (mondo di Caterina e mondo esterno, tra i quali si avverte una separazione)… sono scelte molto classiche, che confortano. Sento un desiderio di non fare poesia alla moda, ma di fare solamente poesia. Grazie di averla condivisa.
G
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Grazie caro del commento – in realtà non so se essere totalmente d’accordo con la tua critica, che pur comprendo – non voglio tirare in ballo una “maestria assodata” dell’autore in quanto tutti possono cadere sia a livello di stile che di altro, questo è indubbio – nel caso specifico solo mi chiedo se questo limite, evidente e che giustamente sottolinei nel personaggio di Caterina, non sia una sorta di limite esistenziale non solo di Caterina ma di ogni persona – da qui il refrain “mondo” – voglio quindi porre l’attenzione sulla tragicità eppure banalità della morte che corona un pò tutto un quadro leggero, lieve – forse Caterina non è “in testa all’autore”, ma è la raffigurazione di un genere umano banale pur con in mano dei sentimenti importanti, che paradossalmente acuiscono la banalità della sua vita – almeno questo è il dubbio che mi viene
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