Come randagi esposti al cielo

Giulia Manzini, foto di Giovanni Riccardi

 
 

Ormai è quasi tradizione che a San Valentino io pubblichi una piccola antologia di poesie d’amore contattando alcuni amici. Nel 2014 era A bad painting, nel 2016 era Ed ogni tanto ti parlo d’amore preceduta dall’antologia di poesie erotiche Non voglio essere l’ultimo a mangiarti, mentre nel 2017 avevo preferito concentrarmi sulla Festa della mamma con l’ebook Tu, tu sei la pianta pubblicato da Laboratori Poesia.

Quest’anno per il 14 febbraio mi hanno inviato i loro versi Giovanna Rosadini, Nicola Vitale, Gabriella Musetti, Tiziano Fratus, Matteo Fantuzzi, Francesco Sassetto, Sandro Pecchiari, Federico Rossignoli, Lucianna Argentino, Melania Panico, Annalisa Ciampalini, Alessia Bronico, Toni Piccini, Federica Giordano, Antonio Lillo, Fabio Michieli. Mentre il titolo deriva da una poesia di Giovanna Rosadini: Randagi esposti al cielo e alle intemperie.

La novità è che l’immagine, o meglio le immagini, non sono tratte da quadri o foto famose ma chieste direttamente agli autori o ad amici. Per rendere questa collezione ancora più vicina alle persone, a chi scrive e a chi legge. Abbiamo così nell’ordine Giulia Manzini fotografata da Giovanni Riccardi, Lucija Slavica fotografata da Luigi Tolotti, uno scatto triestino fatto da Toni Piccini, Elena Zuccaccia fotografata da Costanza Lindi, Federica Giordano fotografata da Manuela Pace, Alessandro Basile fotografato da Antonio Lillo.

Ne risulta uno scorcio poetico intriso di dolcezza quanto d’amarezza, di nostalgia, di erotismo, a tratti con un allontanamento (oserei dire stilistico) dalla realtà quasi a volersene difendere. Perché come già nei precedenti appuntamenti ho detto l’amore è un qualcosa di totalizzante in quanto umano, e in quanto umano non ha un solo volto. L’amore è bene e male, è onesta e inganno, non di rado verso se stessi. L’amore è lo specchio chiaro di ciò che siamo, anche di ciò che non abbiamo.

Questo concetto l’ha espresso molto bene la poetessa tedesca Else Lasker-Schüler (1869-1945) nel testo Liebessterne – (Stelle innamorate) del 1902:

Deine Augen harren vor meinem Leben
Wie Nächte, die sich nach Tagen sehnen,
Und der schwüle Traum liegt auf ihnen unergründet.

 
Seltsame Sterne starren zur Erde,
Eisenfarbene mit Sehnsuchtsschweifen,
Mit brennenden Armen die Liebe suchen
Und in die Kühle der Lüfte greifen.

 
 
I tuoi occhi stanno in attesa di fronte alla mia vita
come notti che anelano al giorno
e il sogno afoso giace su di loro, inesplorato.

 
Strane stelle fissano la Terra,
hanno il colore del ferro e vagano per il desiderio,
con braccia infuocate cercano l’amore
e finiscono ad afferrare il freddo dell’aria.

 
(libera traduzione di Sara Trovatelli)
 

Personalmente continuo a credere che l’amore sia un accettarsi complice. Una conoscenza, perché solo dalla conoscenza nasce il legame con l’altro. Il legame fisico: perché solo conoscendo la mente e il corpo dell’altro lo si può amare sensualmente. Il legame sentimentale: perché solo conoscendo i limiti dell’altro e accettandoli in virtù della sua accettazione dei nostri si può capire la natura umana, e accettare se stessi. Perché l’accettazione di noi passa spesso attraverso l’accettazione dell’altro e attraverso l’accettazione che l’altro ha di noi. Certo questa non è l’unica strada, ma sicuramente una delle più belle.

L’amore ci insegna che in due non si è più soli, ma anche che lo si può essere comunque. Soprattutto in giorni come questi dove il finto individualismo privato ci rende ciechi all’altro perché spinti verso un ideale che, tutto sommato, non è sostenibile. Nemmeno per noi stessi, per la visione che abbiamo di noi. E allora cerchiamo e cerchiamo nella finta convinzione di poter arrivare a una meta per definizione irraggiungibile.

Ma l’amore resta sempre un moto primario dell’uomo. Anche quando non lo si crede più possibile. E in questo sono convinto che i poeti abbiano una grande responsabilità, come i padri verso i figli: continuare a raccontare la possibilità di un sentimento che può salvare l’uomo, anche quando non lo si è conosciuto.

E la facilità e la difficoltà di questa conoscenza è l’altro. Come diceva Montale occorrono troppe vite per farne una, e come diceva Masters perché siamo attratti da stelle che non ci vogliono. L’altro, il diverso da sé, non è il pezzo mancante ma il pezzo necessario a costruire qualcosa di più ampio. Un noi che va inteso come impegno comune, autocritica, bontà. E che inevitabilmente influisce e produce profonde modifiche sul .

Ecco, se dovessi quest’anno definire cos’è l’amore direi proprio che è bontà e conoscenza, condivise.

Alessandro Canzian

 
 
 
 

COME RANDAGI ESPOSTI AL CIELO

Antologia di poesie d’amore – 2018

 
 
 
 
 
 
Randagi esposti al cielo e alle intemperie,
la sera il crepuscolo ci stinge al suo colore
e il giorno ci risveglia al suo sapore, febbre,
contagio che ci ha presi, se prima eravamo illesi
ora siamo sostanza cariata dall’arsura,
smangiati oltremisura e mai arresi,
mai, per quanto il coagulo indurisca e pesi
nella carne e spiombi giù la mente, niente
dilegua, niente. Eppure, il desiderio, risolleva.
  
Giovanna Rosadini
 
 
  
 
 
  
Come un quadro senza dedica
  
Non si dovrebbe dire, non è bello da dire,
ma oggi pensando al suo amore
non ritrovavo le ragioni del cuore –
smarrite nel mio stesso smarrimento,
bianca radice cresciuta nell’impasto
d’ombra di un esilio, viva creatura 
che non conosce luce, inerme e cieca –
forse sanguinerà nel sole estivo, divelta
alla sua terra, oppure sbiadirà
fino a dissolversi in un alito d’aria,
lei stessa bastoncino d’incenso combusto
sull’altare di una memoria che non si
precisa, ma acuta, presente, intrusiva.
O magari prenderà una forma, sarà
la vela che taglia il mare in diagonale
il ritmo che muove le colline sotto il sole
il sorriso dei figli per la fine della scuola.
  
Giovanna Rosadini
 
 
  
 
 
 
Come può essere un amore in ritardo
se per eccellenza è in anticipo 
sulla fine del tempo?
Ci siamo fatti domande su questo paradosso 
del nostro vivere all’alba 
di una felicità che tramonta.
L’amore conserva se stesso 
quando tutto brucia
non è esposto alle intemperie
perché è sempre oggi che offre il suo battito.
Allora non c’è da ridire quando in vecchiaia
dismessi i falsi scopi ci è data un’altra vita 
al largo di quelle isole di felicità
che si vedevano in mare 
in certi giorni di bel tempo. 
 
Nicola Vitale
da Chilometri da casa (Lo Specchio, Mondadori 2017)
 
 
  
 
 
 
Tanto sprecate preghiere perché finisse 
avesse smesso di mirare da questa parte.
Che cresciuto dovesse occuparsi d’altro
guadagnarsi il pane, dedicarsi come noi tutti 
alla compilazione di moduli in attesa.
Ma volti l’angolo ed ecco 
ancora un colpo.
A distanza di anni, senza preavviso
senza scampo 
un colpo di fulmine.
Eros… lasciami andare
che riprenda le strade di Roma
questa ragazza che non mi fa dormire
e non c’è nulla da fare.
 
Nicola Vitale
da Chilometri da casa (Lo Specchio, Mondadori 2017)
 
 
  
 
 
 
in Rue Rollin abitavamo all’ultimo piano
con i tetti grigi a perdita d’occhio
come nelle cartoline vecchie di Parigi
i piccioni traballando
zampettavano sui tubi di ferro dei cornicioni
a raggiungere altezze sempre oltrepassate
le cacche schiacciate di tanti cani
lordavano il marciapiede stretto
dove le macchine non parcheggiavano
e oltre la scalinata
una sola panchina era contesa
dai clochard quando non si scaldavano
alle bocche di fiato arso
della metropolitana
tra pochi alberi di Place de la Contrescarpe
ma noi eravamo giovani e irrequieti
dormivamo su materassi a terra
con un ficus rinsecchito ai piedi
sulla moquette stracciata e sporca
e quelle piastrelle gialle a rombi viola
nel gabinetto senza lavabo
e facevamo l’amore davanti al balcone
per essere più vicini al cielo
guardavamo i giocatori di scacchi
a Le Tuileries sbirciando da dietro
un albero storto
un bacio improvviso tra il cappotto
non si sfilacciava
perché a perdermi di te
anche il tocco di un mignolo
sul palmo della mano era bastante
 
Gabriella Musetti
da La manutenzione dei sentimenti (Samuele Editore 2015)
 
 
  
 
 
  
ce la dobbiamo giocare da soli
questa partita
lontani i figli
scarsi gli amici
ma siamo noi
dopo trent’anni
ancora qui
la stessa tavola
e ancora mi riguardi
ancora rido con te
  
chi dice matrimonio borghese
davvero non capisce
che matrimonio è forma vuota
di questa vita in comune
così squassata e alterna
da rivivere
giorno dopo giorno
 
Gabriella Musetti
 
 
 

Lucija Slavica, foto di Luigi Tolotti

 
 
Quinta contemplazione
  

Raccolgo dalle tue labbra un piccolo granello di sale,
lo nascondo sotto il cuscino. Non ho deciso se alla fine
della stagione li getterò in fondo al lago, sulla cima della montagna,
se ne farò un’offerta votiva alla statua della moglie di Lot.
Se li seminerò nel grembo, aspettando la visita d’un
angelo punk, muto e indecifrabile.
C’è una bellezza da inizio
del mondo nel mettere
ordine in cose
che non ti
apparten
go
n
o

Tiziano Fratus
da Nuova poesia creaturale (Liriche 2008-2018)
 
 
  
 
 
  
Inganno
  

Appena sveglia
lo fai con l’energia
del primo inganno. C’è
una scossa che ci attraversa
sollevando i corpi e disfando
l’ordine marmoreo delle lenzuola.
I capelli tuoi smettono di oscillare,
non gemi ma tutto si blocca. Mentre
attendo che un pittore entri nel quadro
a sistemare una sfumatura di colore, un
soprammobile dimenticato, un vestito,
riesco a tratteggiare la linea diretta
che unisce due punti del tuo
desiderio. Riprendi a
ondeggiare, quanto
basta per andare
a capo con
ordine.
Il mondo è finito,
ritorni a dormire.
sogni di te altrove.
Dipingi il mio sesso di bianco,
il colore che annulla tutti gli altri.
È questo l’amore di cui sei capace?
Sei una lingua che cancella tutto quel che incontra

Tiziano Fratus
da Nuova poesia creaturale (Liriche 2008-2018)
 
 
  
 
 
 
La più bella poesia di sempre
 
Oggi voglio scrivere per te
la più bella poesia di sempre:
poche righe in grado di scavalcare
in un sol colpo tutto il tempo
e il resto della storia. Qualcosa
che rimanga pure quando sarò
fango, o terra o vivo appena
in qualche flebile ricordo.
Intanto voglio raccontare a tutto il mondo
quello che io provo adesso che conosco
l’istante esatto del tuo sonno ed ogni
movimento, fino al risveglio
fino a quando di soprassalto
mi chiamerai cercandomi, piangendo.
Io sono lì, ci sono stato sempre
pure lontano miglia, tra secoli
e millenni continuerò a vegliarti,
rimboccherò le tue coperte, ti passerò
le mani tra i capelli per dirti ancora:
“Buonanotte, sogna, sii contenta,
non preoccuparti mai per niente”
 
Matteo Fantuzzi
 
 
  
 
 
 
E desso mi e ti
 
ogni giorno a scuola, mi el treno de prima matina,
un baso de furia, ti co i putèi de i venessiani
che comanda Venessia
 
          a setembre za fora ’l portón a métar in squara
la nova maestra, a dirghe cossa xe megio far
e che gite e che libri
                    e ti sensa più vose a scoltàr, ringrassiàr,
strénzer man che te benedìsse,
          ore su ore dopo le ore de scuola co quaranta bòcie
saputèi e vissiài
 
               tornar de sera desfàda,    butàrte sul leto
mez’ora a ciapàr fià,
                    svodàda e sfinìa
’sta sera che anca mi torno casa sensa più forze
e stemo un poco vissìni
se tegnìmo le man, ’sta sera de pase e caresse
 
xe luse nel nero
                    el nostro soriso
xe respiro
 
salvessa dal gorgo che ingióte.
 
 

E adesso io e te
ogni giorno a scuola, io il treno al primo mattino, / un bacio di fretta, tu con i bambini dei veneziani / della Venezia che conta // a settembre già davanti al portone a mettere in riga / la nuova maestra, a dirle cos’è meglio fare / e quali gite e che libri / e tu senza più voce ad ascoltare, ringraziare, / stringere mani che ti benedicono / ore su ore dopo le ore di scuola con quaranta bambini / presuntuosi e viziati // tornare la sera disfatta, crollare sul letto / mezz’ora a riprendere fiato / svuotata e sfinita // questa sera che anch’io torno a casa senza più forze / e stiamo un poco vicini / ci teniamo le mani, questa sera di pace e carezze / è luce nel nero // il nostro sorriso // è respiro // salvezza dal gorgo che inghiotte.

 
Francesco Sassetto
da Xe sta trovarse (Samuele Editore 2017)
 
 
  
 
 
 
E xe sempre ’ndàr
 
e tornàr su e zo ogni giorno el stesso giorno
insensà e giorni butài,
un caìgo ne l’ànema che riva in gola
te cópa sorisi e parole.
 
E ti voréssi anca ti star casa co mi, sentài vissìni
sul divàn vecio
         senza dir gnente perché mi so come ti e
ti come mi e se gavémo messo un anèlo al déo
par dirse che xe propio cussì
 
che semo vegnùi su da ’na stessa raìsa, cressùi
ne la tèra de giorni pòvari e duri, dolór e
fadìga imparài e pagài su la pèle
             e ti me domandi parcossa
no se sémo trovài vintani fa o prima ancora
 
e mi rido e te digo el caso, el destìn, le monàe
che disémo noiàltri serài dentro ’sto buso nero
’sto gran mistero
 
         e xe vero, xe sta tanto tempo butà
 
tanto caminàr soli dentro el caìgo
 
                  ma desso te tegno le man
e fémo insieme i ponti e le cale più storte e imbusàe,
desso ’ndemo insieme drìo de ’sta strìca de sol
 
                           fin che ghe ne sarà.
 
 

Ed è sempre andare
e tornare su e giù ogni giorno il medesimo giorno / insensato e giorni sprecati, / una nebbia nell’anima che arriva alla gola // ti uccide sorrisi e parole. // E vorresti anche tu rimanere a casa insieme a me, seduti vicini / sul vecchio divano / senza dire nulla perché io sono come te e / tu come me e abbiamo messo un anello al dito / per dirci che è davvero così // che siamo nati da una stessa radice, cresciuti / dalla terra di giorni poveri e duri, dolore e / fatica imparati e pagati sulla pelle // e mi chiedi perché / non ci siamo incontrati vent’anni fa o ancora prima // e io rido e ti rispondo il caso, il destino, le sciocchezze / che diciamo noi chiusi in questo buco nero / questo grande mistero // ed è vero, è stato tanto tempo gettato via // tanto camminare soli dentro la nebbia // ma adesso ti tengo le mani / e facciamo insieme i ponti e le calli più sghembe e nascoste, / adesso seguiamo insieme questa lama di sole // finché ce ne sarà.

 
Francesco Sassetto
da Xe sta trovarse (Samuele Editore 2017)
 
 
 

a Trieste, foto di Toni Piccini

 
 
non c’è momento che non suoni alla mia bocca
e svuoti d’aria la mia lingua
 
tu abiti sempre qui, discreto forse
e inventi verità, discuti forte
mi rendi pendolare dal passato
 
offrimi l’obolo di questo guardare da lontano
il tempo rifiutato da Caronte
il tempo è più in là ed è fuga al niente
fuori le parole mimeranno direzioni
 
questo era il mio nome
storpialo come puoi
mi fido
 
 
Sandro Pecchiari
 
 
  
 
 
  
la sabbia l’acqua
gli alberi di fronte si obliquano
e plasmano il vento prima della voce
 
serve a questo il torace che si alza?
basta sempre altro per vedersi
per rendersi visibili al respiro
 
In principio verbum non erat
 
c’era prima questo suono solo
gutturale che tende il collo, torce
un ciglio che si inclina
l’occhio che suggerisce e mira
 
forse una mano in sovrabbondanza
vale molto perché stringe forte
quello che sarà
 
Sandro Pecchiari
 
 
 
 
 
 
Restringe i nostri corpi il fulmine,
ci rannicchia e rimette al giusto posto,
tra i gatti e l’uva spina, in limine,
centro d’ogni cosa e avamposto.
  
Troppo piccoli per bastare al mondo,
troppo grandi per noi stessi, non so che fare
di tutto questo me, nemmeno sondo
cosa sia, so solo che può amare
 
quanto uscì dalla desolazione:
l’aria, l’acqua, il fuoco, la terra bruna,
la tua persona in competizione
 
con le cose che la vita raduna.
Forse in onore dell’amor cortese
vaghiamo per sconfinate distese.
 
Federico Rossignoli
 
 
  
 
 
 
Dal buio ribollente ritrovare,
quasi fosse stato suo, il tuo volto.
Ma troppo netta stagli per pensare
che una parola te lo avesse tolto,
  
o ancora un gesto. Vivi in profondità,
mi obblighi a chiamarti, a chiederti luce,
‘ché sei lontana da quella che scuce
gli occhi, ma prossima a quella verità
 
dietro al tuo animo inselvatichito,
che tarda a fidarsi delle persone,
muove di notte, ha pelo pulito
 
e raggiante, e ordina professione
di fede. Concedi, dal tuo valore,
lo stesso volto e uguale bagliore.
 
Federico Rossignoli
 
 
  
 
 
 
Pensami vicina
come un sentiero
sciolto dalla meta
buono per i lombrichi e le api
e per i passi di angeli
senza annunci.
Ora che sono per te
colei che moltiplica
e ho l’andamento
dei verbi all’infinito.
 
Lucianna Argentino
 
 
  
 
 
 
Strega folle brucio sul rogo del suo corpo,
sfavillo felice sotto il crepitio delle sue mani
ardo di sapienza verticale
nella combustione dell’abbraccio esotermico
– lui il legno io la pietra focaia.
Danzo il sabba senza giudizio
attorno al fuoco mistico del noi veggente
l’estasi terrena – io e lui complici
nell’infinita scienza della carne.
 
Lucianna Argentino
  
  
 

Elena Zuccaccia, foto di Costanza Lindi

 
 
Da questo punto il ricordo della neve, un ramo
innesto che chiamiamo casa, ancora
il ricordo ci ammansisce
piegati alla definizione di chi chiede un gesto
Prova a dire che ci siamo amati
che il tavolo ignora la conversione del tarlo
Troverai che il tempo ha soluzione: ci respinge
con gli occhi al cielo, ci mortifica.
L’amore al fondo della stanza, il muschio.
 
Melania Panico
 
 
  
 
 
  
Anche il paesaggio partecipa e muta,
misura la forza del nostro incontro mancato.
Tutto si è sbilanciato dalla mia parte,
la vita delle rose e dei capelli, l’arrampicarsi delle strade.
Com’é debole il tuo braccio che nulla vuole,
e il vuoto attorno, il deserto nelle strade.
  
Annalisa Ciampalini
 
 
  
 
 
 
Ci siamo cosparsi di rosmarino
nelll’oasi, in mezzo al nulla
amarsi: costruirsi innocenti
tra i semi e le radici e i frutti,
maturo pasto per gli uccelli
La nostalgia
è uncino che squarcia la carne
mi carezzi con la stessa delicatezza
che riservi alla melissa e profumiamo
come il giallo dei limoni e mi guardi
come fossi calendula fiorita d’arancio
in questo ventre: zolla aperta ai baci.
 
Alessia Bronico
 
 
  
 
 
 
proteggimi
lungo il viale della nostalgia
come il vento che s’adegua
agli spigoli, mentre corre
parla ai vetri sorpresi
alle porte semiaperte
sposta rifiuti abbandonati
lontano
più in là, proteggimi, più in là
di dove siamo, distanti:
cime, orizzonti, stelle,
pianeti e luci
notturne di paesi silenziosi
che illudono l’insonnia
proteggimi come l’ombra
nelle pozzanghere di pioggia
la mandorla nel riccio
la mano in tasca quando
è freddo e l’amore
è più in là, proteggimi:
dalla mia bontà
dalla tua onestà
dai versi delicati
 
Alessia Bronico
 
 
  
 
 
 
Il tuo respiro
libera la mia stanza
da ogni vuoto
 
Toni Piccini
 
 
  
 
 
 
due tulipani –
nel sonno incrociate
le nostre gambe
 
Toni Piccini
 
  
 

Federica Giordano, foto di Manuela Pace

 
 
Vorrei essere un tempio
irto sul petto di un uomo
antico e vivo
col respiro che ancora dice.
 
Federica Giordano
 
 
  
 
 
 
Il tempo della mano nella mano,
del passo come veliero verso una scoperta,
è finito in minuscoli frammenti in espansione.
Adesso avanzare è fare trincea, dove il piccolo e il breve
è immenso dono.
Eppure la sua bellezza primaria rivoluziona la linea del tempo,
ne modifica il peso, conta i bocconi, i progressi e le parole nuove.
Il sorriso di nostra figlia sembra venir fuori
da una bellezza antica e cosmica
a cui siamo sempre impreparati.
Ma quando la mano va nella tua mano,
il tempo diventa pomo o sfera che conserva dentro,
in un punto segretissimo,
tutto ciò che tu ed io dovremo ancora vedere.
Sempre uguale torna quella sete.
Quella stessa sete.
 
Federica Giordano
 
 
  
 
 
 
Filò
 
Sgranavano filò di perle le note incise
nella tua schiena ed emerse dalla notte
per riavvolgere il tempo sulla pelle.
Le contavo una ad una e poi perdevo
se m’agitavo nel tuo sguardo miope
che più mi ricercava e più mi rispecchiava
a fondo perduto nell’enigma del tuo sì.
 
Antonio Lillo
 
 
 
 
 
 
È nei momenti di massimo sconforto
vedi come questo ritorna il tuo sorriso
a farsi vivo se tu scomparsa in una nebbia
e perciò abbagliante adesso che ti giri
la luce ti attraversa mentre chiedi: E tu
cosa ci fai qui adesso? Io resto
di sasso ammutolito e nero dal sole.
 
Antonio Lillo
 
 
 
 
 
 
La passeggiata
  
risalendo con te Costa San Giorgio,
ridi perché scatto foto alle insegne
alle targhe sui muri scalcinati –
 
ti dico allora chi pose i suoi passi,
chi corse coi suoi versi la salita
nel punto dove incontra la Scarpuccia…
 
fingi di non comprendere, di perderti
nell’affanno che rallenta il tuo passo;
 
ma poi ti volgi e guardi verso il basso:
un varco, le scale – la luce e l’Arno
 
Fabio Michieli
da Dire (Editrice l’Arcolaio 2018)
 
 
  
 
 
 
la Torre che dilata la sua luce
mentre brilla la snella silhouette…
 
“Parigi!” e il nome basta a riportare
gli occhi tuoi accesi sul ponte, la Senna
d’oro, Trocadero alle spalle e un ratto
che rapido guizza sotto la giostra
 
Fabio Michieli
da Dire (Editrice l’Arcolaio 2018)
 
 
 

Alessandro Basile, foto di Antonio Lillo

 
 
 

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