Ero e Leandro

Ecco un’ulteriore stesura provvisoria del poemetto.

Grazie.

Raccontami, o mare, di Leandro
e della folle idea di traversare
il vuoto delle acque, la tua
aspra noncuranza del suo corpo
quando fra gli scogli
l’hai lasciato in bella mostra.

Raccontami tutto il tuo disinteresse
per quell’impudico sudore
rosso fra le onde, per il tuo
osservare muto la sua morte,
il tramontare sordo della foce
d’un amore senza voce.

Raccontami qual è stato il tuo piacere
nel vederlo aggrovigliare
gola e acqua fra le stelle, oltre
tutte quante le tempeste
e ciò che vuole provvidenza,
e tenerezza, e buona sorte.

Raccontami la crudeltà così abusata
nel lasciarlo morire quella notte
senza più alcuna tua pietà.

Tu accusi me di colpa
e delimiti il mio luogo
come motivo della morte.
Ma non fu questa la sua sorte.

Ed ora ti racconto
della grande bellezza d’Ero
e della forza di Leandro, e di
quanto tutto questo non bastò.

Due città alte s’affacciavano
a me con orgoglio e meraviglia
ed io entrambe le abbracciavo
come un padre coi suoi figli.

E galeotta fu la festa
non l’acqua che trattengo
alla bellezza crudele d’Ero.
Era lei sola a camminare
per le strade quella sera
e tanti, così tanti che neanche
la morte ne avrebbe sfatti
erano i ragazzi nel suo strascico
con le voglie fra le mani.

E c’era chi coglieva un ciuffo
dei morbidi capelli
e chi s’avvicinava per sentire
l’odore che lasciava, e chi studiava
a misurare le parole
ai ciondoli ai suoi piedi.

Ma Ero bellissima sdegnava
quei ragazzi così ammaliati
che nemmeno rispondeva
o concedeva cenni, o sguardi,
alla marmaglia che offendeva.

Ero bellissima già sapeva
tutto quello che voleva.

Non so dirti perché Leandro
riuscì nell’intento di fermarla.
Un ragazzo come tanti, bello
come i ragazzi di vent’anni,
capace, e alto, dallo sguardo
ritto e fermo su di lei.

Fu forse solo il gesto
certo di guardarla in viso
che spense la fierezza d’Ero
e ne lacerò le barricate.

Io ero lontano, non so dirti altro,
se non che Leandro le trattenne
una mano e con l’altra il fianco
respirando il suo respiro
e comprendendone le voglie.

Le prese un lembo delle dita
e contandone le unghie
le percorse i confini della schiena
senza armi e senza grida
invadendone le membra.

S’innamorarono, se questo è amore,
della forza di Leandro
e della bellezza feroce d’Ero.

E non si dissero parole
in quella pozzanghera di sole
che già li conteneva.

Altro però conosco
che vidi io stesso fra gli scogli
quella sera. Ero bellissima aspettava
Leandro fra le pietre
annerite dalla notte, e lui
arrivò veloce nel suo grembo
già adibito per l’amore.

Pareva avessero deciso
sconosciuti e senza voce
il luogo del furore. E fu tempesta
di tempesta quando Ero morsicò
il collo di Leandro e lui
le prese il segreto del suo corpo
senza permesso ma voluto.

Ero bruciava d’una voglia
frettolosa e lo spingeva
con le mani in mezzo al fondo
sciabordante degli scogli, e lui
mareggiante le sollevava il velo
della pelle fino al pube
che fa la notte.

E fu mare dentro il mare, Ero
non trattenne la sua foce e il golfo
di Leandro si fece bocca
che beveva la sua spuma, cieco
alle mani d’Ero che da sole
già misuravano le stelle
che spegnevano la sete.

Leandro si fece luna
mentre Ero pianse dal piacere.

E così Leandro cadde
come corpo morto cade
incapace della fine. E lo vidi
baciare i piedi nudi d’Ero
nella calma degli scogli
che sopravviene alle tempeste.
Piedi belli fra conchiglie
che in fondo anch’io ho ammirato
nel colore chiaro delle unghie.

Ed Ero allora s’alzo nuda
e Leandro divenne muto
alla sua schiena e ne contò
le linee fra i capelli
fin sotto alle ginocchia
per non dimenticarla. Io,

che sono il mare, ammetto
di non aver potuto dire nulla
di fronte a quell’immagine.

Leandro pensava ad Ero
e lo sentii io stesso domandare
in quale giorno l’avrebbe vista
ancora. Ero, placata delle voglie
e rivestita del suo orgoglio
indicò la torre che senza colpa
io allontano dagli scogli. Lo so

che avrei dovuto rammentare
a Leandro la caduta
che sempre ci minaccia, lo so
che avrei dovuto ricordare
la distanza delle pietre, i
granchi che li vi s’affaticano
a resistere un giorno solo
alla terra, alle meduse velenose
che li vi muoiono strappate.

Ma non potei che ammirare Ero,
la bellissima Ero dalla schiena nuda
come un’alba di giardini
quando s’avvicina primavera.

Leandro innamorato si tuffò
pochi giorni dopo quella sera.
Ed Ero ferma lo aspettava
dall’altra parte della stanza
della voglia con freddezza, con
l’orgoglio di chi ha già ottenuto.

Leandro nuotava senza luce
col coraggio di chi ama
vedendo e non guardando
la follia del proprio cuore. Due

volte con le braccia e due
volte con le gambe, freddo
come solo il mare, ma
nemmeno questa è colpa mia.

Ascolta le mie parole
che ti dico veritiere,
nemmeno questa è colpa mia.

Il vento gli correva incontro
avvisandolo di molto
e aggredendogli i capelli,
ma Leandro resisteva agli anni
che gli restavano da vivere, molti
più di quelli addietro, col ricordo
bianco dei piedi d’Ero.

E quando giunse alla sua meta
tra gli scogli trovò stizzita
Ero per il ritardo. Leandro
comunque innamorato raccontò
che senza luce navigava
da troppe ore senza pace,
molte più di quelle che la forza
umana avrebbero potuto dare.

Ma Ero la bellissima, sdegnosa
e sdegnata dalle scuse, disse
di tornare la sera dopo
e che non avrebbe ricevuto nulla
di quello che voleva.

Come se l’amore fosse un corpo
da meritare navigando
nel fondo di un altro tentativo.

Leandro la seconda notte
si fece nave di se stesso
da una parte all’altra dello stretto.

Vide stelle e vide alghe
che lo sostennero al pensiero
d’avere ancora Ero. Rammentava
ad ogni bracciata le sue spalle
e il suo seno levigato
da un tempo ancora non passato.

Correva così affamato
in mezzo al nero dello strazio
delle membra affaticate
che non potevano comunque
reggere più alcun atto.

Ed Ero lontana lo aspettava
ancora senza lampada.

Raggiunsi il conto di nove notti
in cui Leandro mi percorse
col fervore e l’impazienza
d’avere ancora Ero. Ma lei
stizzita ogni notte rifiutava
il corpo stanco di Leandro
appoggiato alla sua porta.

La prima notte fu il ritardo,
la seconda fu forse il gesto
di Leandro di morsicarle il labbro,
la terza forse la stanchezza
che gli rese molle il corpo
e via dicendo nei litigi
che ogni notte si scambiavano.

Ma Leandro nuotava indifferente
notte dopo notte
non pensando alla sua sorte.

Nella decima fu la sorte
non il mio volere a far venire
l’ultima tempesta. Da scoglio
a scoglio il vento urlava
a Leandro di non andare
e le onde s’aggrovigliavano
alle sue braccia trattenendolo
con moniti e parole.

Ma Leandro ancora ardeva
a quella bocca e a quelle gambe
e pensava ai suoi piedi scalzi
bagnati dalla sabbia. Corse
in mezzo all’acqua con più forza
e solo una volta vi discese
bevendo copiosamente
fino quasi a soffocarne.

E la colpa non fu mia del buio
né della pioggia che accecò
gli occhi abituati al nero, non
fu mia la colpa dello schianto
del mondo contro il mondo,
la guerra delle ossa esposte, non
fu per me il dipinto che rimase
osceno di fronte a Dio.

Non so dirti chi o cosa volle
quel vento e quella pioggia.
Ma non fui io.

Dio mai lo vidi, se pensi
a lui, mai lo vidi
nel fondo che contemplo né
mai lo sentii cantare con i pesci
o camminare tra i fondali.

Non posso chiamare in causa
ciò che non conosco, credo
solo al corpo bianco di Leandro
ora reso spiaggia nello scoglio
con tutto l’orrore dell’amore
di chi non è stato trattenuto.

E fu così che le due città
rimasero a fronteggiarsi
alte e straordinarie. E
le feste e le ragazze
che vanno lunghe e fiere
e i ragazzi pronti a trattenere
la fragranza dell’odore, l’alito
buono delle cose. Fu così

che Leandro perse quella vita
che già era stata data
sugli scogli nella notte, perché
nessuna caduta è mai dal nulla,
ogni cosa è raccontata
a chi è capace di ascoltare.

Leandro era gettato come straccio
a pezzi e senza forma
in mezzo al vento che ancora urlava.
Le sue braccia aperte contro Sesto
con negli occhi un vuoto esteso
per quella volta che l’aveva avuta
lieve sugli scogli, nuda.

E lo so che qualcosa manca
alla conclusione della storia
ma ti assicuro che la colpa
non fu mia. Quella notte
so per certo che la colpa
non fu mia, perché piansi anch’io.

Anche
Ero, la bellissima, quella notte
pianse, in buona compagnia.