Su una lezione con un Mental coach

Oggi ho seguito un incontro con un mental coach, all’interno di un percorso aziendale, che mi ha molto divertito. Si è creata una discussione a più voci accesa e vivace alla quale non ho voluto rispondere. Stasera, con calma, appunto qualche riflessione.

Intanto è stato molto bello constatare che le teste che stavano partecipando c’erano e pensavano, cosa non sempre scontata, appoggiandosi ognuno alla propria esperienza e competenza. Saper usare la propria esperienza non è cosa da poco.

Al netto di questo, e senza entrare troppo nei contenuti portati dal mental coach, devo ammettere che sono rimasto un po’ perplesso di fronte a concetti come “miglioramento” o “tecnica per…”. In realtà ammetto di non avere una vera e propria preparazione per argomentare su questo, ma è indubbio che quando ci poniamo in una prospettiva di miglioramento personale facciamo una cosa indiscutibilmente buona e bella. Trovo sia altrettanto indubbio che in questo modo un po’ ci stiamo dicendo “dobbiamo migliorare”.

Cosa vuol dire? Che ora siamo peggiori di quel che dovremmo essere (è un po’ la base dell’acquisto no? “Sei insoddisfatto anche se non sai di esserlo”). Ci autoponiamo in una situazione psicologica in cui siamo in qualche modo sbagliati, non andiamo bene. E trovare conferme all’essere sbagliati è come cercare polvere su un mobile: la troverai sempre, anche subito dopo aver pulito.

Si è parlato anche ed estesamente di bisogni primari, ma anche in questo caso non mi sono trovato molto d’accordo. Non si può generalizzare tutto sulla base di poche categorie, tra l’altro temo facendo riferimento alla visione di una cultura che storicamente riconosce solo sé stessa (almeno questa è stata la mia netta impressione) e interpreta il mondo sulla base delle proprie istanze, oppure le esporta. Non si può escludere il contesto.

I 6 bisogni che ci sono stati presentati sono sì indiscutibili (bisogno di sicurezza, di varietà, di importanza, di amore/unione o di appartenenza, di crescita, di contribuire), ma va considerato che se vivo in una zona di guerra il mio bisogno primario sarà mangiare e sopravvivere. Se ho una famiglia o mi sta per arrivare un figlio il mio bisogno primario sarà raccogliere soldi per costruire la vita. Se sono giovane e di belle speranze il mio bisogno sarà interagire e crescere il più possibile, nel peggiore dei casi passando sopra qualcuno per ottenere i miei risultati. Se ho una certa età il mio bisogno primario sarà stare tranquillo, interagire quel tanto che basta, non avere problemi.

Stamattina una delle partecipanti ha detto una cosa straordinariamente bella che in determinati contesti culturali (a cui ripeto si è più o meno fatto riferimento) è quasi sconosciuta: “abbiamo diritto di vivere le emozioni, quelle positive quanto quelle negative”. In questi contesti (che non nominerò per non offendere nessuno) la cosa è sconosciuta perché la cultura impone una standardizzazione di tutto, tutto deve inscritto in uno schema di comportamento ed emozioni accettabile. Salvo poi scoppiare e produrre quelle storture umane orrende a cui la cronaca ci ha abituati. Siamo nell’ambito terribile di una banalità che non tutti capiscono: la pentola a pressione prima o poi scoppia, e non è colpa della pentola.

Si è fatto anche riferimento a un esempio, chiesto dal gruppo. Se uno mi distrugge la macchina mi arrabbio? E come gestisco la rabbia? Personalmente penso che prima di agire con tecniche che permettono di controllarmi devo chiedermi perché mi arrabbio. Magari non ho altro nella vita, mia moglie mi ha lasciato e un cretino mi distrugge pure la macchina. Oppure ho fatto sacrifici per anni per comprare quell’auto che volevo e non potrò più permettermela. Oppure non ho i soldi per comprarmene un’altra e rimarrò a piedi. Certo, se sono ricco e non ho particolari problemi non mi arrabbierò, ma così è facile. L’io che si arrabbia o non si arrabbia è sempre lo stesso, cambia il contesto.

A volte penso che la chiave non sia l’analisi ma l’accettazione di sé e degli altri, che non nega la possibilità di evolvere ma accetta che siamo quello che siamo. Flaubert ha scritto che “ognuno porta la sua croce”, cosa scontata ma quando trovi qualcuno che ti urla è proprio questo il punto: non sai cosa sta passando. Ma sai che è identico a te, che quello che tu fai lo fa anche lui o lei, che tu vuoi lo vuole anche lui o lei. Se hai fatto una brutta cosa ti devi chiedere il perché e capire appunto qual è il motivo (come si diceva stamattina). Ma soprattutto pensare che quando gli altri fanno qualcosa di brutto hanno come te un motivo dietro. Cipolla, un autore molto divertente, ha scritto in un suo saggio che “stupidità è fare del male senza ricavarne un beneficio”. Tutto il resto, se si supera l’orgoglio, è praticamente comprensibile, anche quando non condivisibile, perché ci è identico.

Siamo prodotti di una storia che deve essere e che possiamo usare per maturare e acquisire consapevolezza, e per capire il comportamento degli altri. Certo non è facile accettare l’offesa o il danno che l’altro ci arreca più o meno consapevolmente. E ancor meno è facile accettare che non tutto è bianco o nero, ma grigio, con tante/troppe tonalità in mezzo. Come noi.

Poi c’è il grande tema delle priorità. Ovvero che priorità ha una persona? Lì si gioca tutto. Il bene quanto il male. Certo la priorità è una scelta, o almeno può diventarlo, e qui si torna nell’ambito della maturità e della consapevolezza. Pensate alla metafora biblica di San Paolo: da massacratore di cristiani a santo cristiano. Dirò quindi una cosa ovvia ma terribile: tutti i suoi morti sono serviti a renderlo quel che è diventato.

La chiave è l’accettazione di sé che, automaticamente, produce accettazione degli altri. O quando proprio non si può allontanamento. Molte volte probabilmente siamo stati persone che oggi non riconosciamo più, ma che hanno prodotto chi siamo oggi, e che se vogliamo ci aiutano a capire gli altri anche quando appaiono incomprensibili, per propria utilità o stupidamente (come diceva Cipolla).

Sulla comunicazione, altro tema introdotto, poi c’è poco da dire. È semplicemente lo strumento che abbiamo per esprimere e condividere proprio questa accettazione. Che ribadisco non significa giustificare o giustificarsi, ma comprendere. Oggi è stato usato il termine “controllare”, che altro non è che un sinonimo di “volontà di possesso”. Ma l’uomo non possiede mai nulla veramente. Non una vita, una casa, una famiglia, un’azienda. È un qualcosa di passaggio che contribuisce al mondo in cui si trova a vivere secondo le priorità che sceglie. Insomma che sopravvive nella migliore delle ipotesi sperando di fare, prima o poi, qualcosa di buono.

Buon I Maggio.

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