Secondo incontro con l’ormai consueto mental coach. Scrivo di getto, a caldo, in pausa pranzo qualche impressione su questo secondo appuntamento incentrato sulle credenze.
Le reazioni di chi seguiva sono state ben più tiepide della volta precedente, soprattutto di fronte alle citazioni di Ronaldo e Corona. L’impressione che continuo ad avere è di un discorso interessante ma che non arriva mai al punto. Fosse un libro lo accuserei di autocompiacimento, o di trattare il lettore con eccessiva sufficienza e presunzione.
Perché alla fin fine è vero che tutti crediamo qualcosa, che ci fissiamo su qualcosa, ma scoprire d’essere capaci di giocare a biliardo o meno, o come nel mio caso essere in grado gestire un conto matematico, è un livello un po’ blandino per degli adulti.
Mi spiego: io credo qualcosa, questo è indiscutibilmente vero ed è necessario. Ho bisogno di avere dei punti di riferimento. E questi mi vengono dalla mia cultura familiare, poi da quella della mia società, poi dai media, poi dalla mia esperienza. Ma non sono mai legacci insolvibili. Certo a mia nonna non potevo certo dirle che il prete sbagliava, cresciuta com’era pensando che il prete era l’emanazione di Dio in terra tramite la chiesa. Ma Dario De Nardin, caro vecchio amico e poeta, che ormai credo avrà superato abbondantemente gli 80 anni, ricordo diceva: “a me hanno insegnato, il prete ce lo insegnava a scuola, che uccidere è peccato, ma in guerra è meno peccato”. Insomma anche il dirlo a me era sintomo di un ragionamento che aveva in parte smontato quell’impostazione culturale che gli era stata inculcata.
L’essere umano è terribile e meraviglioso, ma è anche capace di ridiscutere e ridiscutersi. Il problema forse è l’esperienza, la capacità dell’esperienza. Se infatti faccio esperienza di una determinata realtà ecco che posso cambiare idea. Posso dire cambio credenza (anche se non mi piace proprio il termine, un po’ improprio).
L’essere umano vive di opinioni, di valutazioni, di cose a cui si appoggia ma è naturalmente portato a metterle in discussione (si chiama adattamento). Ed è quello che la società avversa in misura massima. Perché l’adattamento è pensiero, e il pensiero non è manipolabile. Quindi è necessario creare una credenza (ancora con questo termine) al fine di controllare la situazione (si pensi dalla macrostoria alla microstoria di un’azienda dove gli operai fanno operazioni sbagliate perché si è sempre fatto così, autoprovocandosi incidenti).
Divide et impera? Basta togliere a un popolo scuola e sanità e il popolo sarà totalmente in mano tua, pronto a odiare chi gli dici di odiare, pronto a non guardare 32 mila morti, anzi elevandoli a costo giusto e necessario per un numero spaventosamente inferiore di altri morti. Poi possiamo anche parlare di credere di non essere bravi a fare qualcosa, ma è veramente quanto ci serve?
Credere in qualcosa è, e qui mi riallaccio al commento di qualche settimana fa sempre sul mental coach (QUI), sempre una questione collettiva di equilibri sociali, di potere, di politica. O semplicemente di voglia di crescere, di avere un progetto comune.
Ma non è mai una questione privata, per buona pace di Ronaldo o Corona. Anche perché c’è l’altra grande questione sollevata durante l’incontro e molto poco affrontata: credere che qualcosa sia bene per noi. Pensiamo che guadagnare tanto sarà bene per noi? Che lavorare tanto o poco sarà quel che vogliamo? Che ci farà sentire bene?
Il problema non è quel che vogliamo per noi, che secondo il mental coach crea o in qualche modo si coniuga con le credenze. La questione è che non possiamo sapere cosa sia bene per noi. Possiamo immaginarcelo attraverso gli strumenti che abbiamo, e una volta ottenuto possiamo rimanerne delusi. Possiamo cercare di capirlo con l’esperienza e l’età umana, ma sempre più mi convinco che non siamo costituzionalmente fatti per capire questa cosa. Siamo macchine che corrono, senza vero e proprio controllo, senza una vera e propria capacità di frenare, di cambiare direzione, senza una vera e propria patente e senza sapere dove stiamo andando.
Possiamo provare a immaginarlo, ma sarà sempre una scommessa persa in partenza. Poi non lo so, magari invecchiando mi ricrederò.